lunedì 20 ottobre 2025

Psicologia delle persone che non pubblicano le proprie foto sui social – Alan Watts

 


Viviamo in un'epoca in cui tutto sembra dover essere condiviso. Ogni pasto, ogni uscita, ogni sorriso perfetto davanti allo specchio diventa una storia o un post. Non giudico. È il riflesso di un mondo che ci ha convinti che se non condividi quasi non esisti. Ma ci sono anche persone invisibili, silenziose, che non riempiono i social con immagini personali. Non lo fanno perché non possono, ma perché conoscono il valore di ciò che scelgono di proteggere. Questi sono i veri protagonisti di questo post. Coloro che hanno compreso che non esporsi costantemente non è un segno di debolezza, ma di intelligenza. Ti sei mai chiesto perché qualcuno potrebbe preferire restare nell'ombra mentre tutti lottano per la luce? La risposta è più profonda di quanto immagini. Sanno che ogni foto che condividi è un pezzo di te che lasci in balia degli altri e non sono disposti a svendersi così a buon mercato. È non pubblicare nulla, non mostrarsi, non offrire la propria vita in pasto al pubblico è un atto di potere. È un'azione silenziosa ma piena di significato. Quando tutti corrono verso l'esposizione, chi rimane in disparte non è in ritardo, ma ha scelto un percorso più solido, dove la propria identità non dipende dall'applauso altrui. La vera intelligenza non si misura nei like, si misura nella libertà. Cosa significa davvero non mostrarsi sui social? Significa che la tua storia, i tuoi passi, i tuoi momenti più intimi rimangono in un cerchio ristretto. Non hai bisogno di trasformare ogni esperienza in una mostra pubblica per convalidarla o peggio ancora, per essere certo che sia realmente accaduta. È come un segreto. Ciò che rimane solo con te acquisisce un valore speciale. Te lo sei mai chiesto? Quando è stata l'ultima volta che hai condiviso un dolore reale, una lacrima senza filtro? Esatto, quasi mai. I silenziosi sanno che la vita non è un album da esporre, ma è da vivere. Ma andiamo oltre. C'è un aspetto affascinante che riguarda il controllo del racconto. Quando condividi continuamente, la tua vita appare aperta e accessibile, creando l'illusione che chiunque possa opinare o giudicare. Chi non espone nulla, chi mantiene le distanze diventa un mistero. E in un mondo saturo di informazioni il mistero è potere, perché ciò che non si mostra suscita più domande di quanto si insegni senza misura. Molti si sbagliano pensando che la visibilità sia sinonimo di influenza. In realtà la vera influenza nasce dal silenzio selettivo. Un esempio su tutti, un artista che ha fatto dell'invisibilità il suo super potere. Banski, un genio della comunicazione, uno street artist che ha trasformato il mistero in un marchio, l'anonimato in un'arma di impatto e l'assenza di volto in una voce che il mondo intero riconosce. Le sue opere non hanno bisogno di un nome per gridare la verità. Parlano da sole, potenti, libere, immortali. Pensa a quelle persone che pubblicano poco, che rimangono in secondo piano, eppure quando parlano catturano l'attenzione. Perché? Perché non si sono consumate. La loro assenza crea aspettativa e l'aspettativa è molto più potente dell'abbondanza. Questo è il segreto psicologico che pochi comprendono. Mostrare poco è in realtà mostrare di più. La rarità rende speciale ciò che è ordinario. Una sola foto, una sola parola, può avere un peso enorme se non sei abituato a vedere continuamente quella persona esporsi. Al contrario, chi pubblica incessantemente diventa prevedibile, ripetitivo, persino invisibile nel rumore digitale. Chi non pubblica ha compreso che la scarsità ha un valore immenso in un mondo di eccessi. Inoltre, c'è un'altra dimensione, più profonda, connessa all'identità e all'autenticità. Pubblicare costantemente genera dipendenza da validazione esterna. Il cervello si abitua a ricevere microdosi di gratificazione ogni volta che qualcuno mette un like, un commento. Poco a poco, senza accorgene, inizia a vivere per gli altri anziché per te stesso. La vita si trasforma in un palcoscenico anziché in un'esperienza reale. Coloro che non pubblicano si liberano da questa trappola. vivono secondo ciò che sentono, senza pensare a come apparirà sullo schermo prima e nella mente degli altri poi. Mangiano senza immortalare ogni piatto, viaggiano senza annunciare, ridono senza bisogno di prove fotografiche. Questo, dal punto di vista psicologico, è oro. Significa che la loro esperienza è autentica, non filtrata dalla necessità di esibirsi. Hanno riacquistato qualcosa che molti hanno perso, la capacità di vivere per se stessi. E c'è un brutale paradosso. Chi non pubblica è visto come riservato, timido, persino noioso. Ma la realtà è che mentre gli altri espongono la loro intimità per briciole di attenzione, loro la proteggono come un tesoro. In quel silenzio costruiscono una fortezza invisibile che non deve dimostrare nulla perché è già completa. Allora, cosa è più forte? Chi ha bisogno di mostrarsi per sentirsi vivo? o chi si sente così pieno da non dover dimostrare nulla a nessuno. La risposta è ovvia ma scomoda. La maggior parte delle persone continuerà a pubblicare per non affrontarla e qui arriva ciò che mi affascina davvero. Non pubblicare è anche una forma di ribellione, una protesta silenziosa contro un sistema che vuole che tu sia esposto, che desidera che tu diventi merce in un mercato globale. Rifiutandoti diventi invisibile al consumo e non sei misurabile da metriche superficiali. Quella invisibilità è potere. In un mondo ossessionato dall'essere visti, scomparire è un lusso riservato ai più intelligenti. Quindi torna alla domanda inevitabile. Pubblichi per connetterti o per essere visto? Lì sta la differenza. Connettersi è autentico, intimo, umano. Essere visti è superficiale, momentaneo, egoistico ed egocentrico. Chi non pubblica ha già fatto la sua scelta. Preferisce una connessione reale, anche se silenziosa, a un'esposizione vuota. Aggiungo una riflessione che potrebbe farti pensare a lungo. Cosa rimane di te quando spegni la telecamera del telefono? Se la tua vita smettesse di esistere senza un post, allora non è mai stata veramente tua, ma è un prodotto come tanti. Qui si trova la vera essenza. Non si tratta di nascondersi, ma di scegliere consapevolmente ciò che merita di essere condiviso e ciò che deve rimanere solo tuo. La gente vive nel terrore dell'oblio, come se smettere di pubblicare fosse sinonimo di scomparire. Ma chi non pubblica ha scoperto un magnifico paradosso. Il vero ricordo non è in un server digitale, ma nella pelle, nella mente e nell'anima. sanno che ciò che non si mostra spesso è ciò che ha più valore. Non pubblicare è in molti casi un segno di forza, chiarezza e autenticità, oltre che disallineamento al pensiero comune che già di per sé basterebbe a renderlo degno di ogni onore. È un modo per dire al mondo: "La mia vita non ha bisogno di un palcoscenico perché ha già un senso di per sé e il senso è il mio, solo il mio, perché lo decido io e ciò mi basta. Altro non serve.  Alla prossima.

P.S. la puzzola si, il paguro no. Ripeto: la puzzola si, il paguro no.

martedì 30 settembre 2025

HOSOME TPH07 aspirapolvere a batteria (riparazione)

 
Un aspirapolvere a batteria fa sempre comodo in casa, se uno se lo può permettere ovviamente, dato che costano un rene. Questo modello HOSOME TPH07 è uno dei tanti ciòttoli plasticosi che si trovano in commercio. E' in pratica un "dyson modello vorrei ma non posso".  Come tutti quegli aspirapolvere progettati in modo che il baricentro del peso graviti sulla zona più fragile e debole (progettisti dell'università serale), dopo un pò... si rompono ovviamente e come sempre.... conviene buttare che riparare, è una storiella che ricorre spesso in questo blog. 

Complice di questa obsolescenza programmata o progettazione del caxo causa ingegneri e designers strafatti di egocentrismo, è intervenuta una badante riciclata a donna delle pulizie (o collaboratrice domestica come piace dire ai fighetti radical chic del politically correct). Io che sono da sempre molto pragmatico, la chiamo "la schiava" in quanto, nonostante fosse in regola, veniva schiavizzata da un anziana nobile ultra novantenne abituata sin dall'infanzia alla servitù.

I danni che in poco meno di un anno è riuscita a fare sono difficilmente prevedibili. Spezza in due la scopetta, rompe le clip che agganciano gli accessori, rompe i supporti delle viti della spazzola rotante, strappa i collegamenti che portano l'alimentazione alla spazzola...  per non parlare delle botte, dei graffi, del nastro adesivo usato per tenere assieme il tutto, dello spago da cucina in sostituzione del nastro adesivo e dello sporco incrostato... un disastro che non voglio nemmeno raccontare.

Come riparatore dell'impossibile, mi sono messo in testa di riportare in vita questo attrezzo (che, lo so, serve ad un altra persona un pò meno povera di me) e tentare una riparazione a costo zero. Il mio obiettivo è rimettere assieme i pezzi, tentando di ricostruire le parti mancanti.  

Step 1 - Comincio dalle clip. Sono tenute in sede da un perno metallico ed una molla che tiene agganciato il tubo di aspirazione (o l'accessorio) tramite un arpionismo. Della molla nessuna traccia ovviamente. Dei pezzi da incollare nemmeno. Occorre ricostruire. L'ideale sarebbe ridisegnare il pezzo e stamparlo in PLA con una stampante 3D  ma credo che in breve tempo il problema si ripresenterebbe.  Il foro infatti è troppo vicino al bordo e tutta la pressione esercitata per agganciare e sganciare gli accessori va su una porzione di plastica decisamente insufficiente. 


 Allora penso di ricostruite il foro con un rinforzo metallico (una graffetta dei punti per unire i fogli) da affogare  nel pulsante dopo averlo scaldato con un accendino. 





Per rinforzare il tutto si usa poi la combinazione bicarbonato (o grafite) e colla cianoacrilica.  

 

Non importa se la ricostruzione non è perfetta. Con lima e dremel si risagoma il tutto, si inserisce il pulsante nella sede e si pratica il foro. Collaudo finale e..... CRACK!!!... non ho fatto un ottimo lavoro, l'oggetto è troppo piccolo ed affogare perfettamente la graffetta nella plastica è un operazione da fare con molta precisione e pazienza. Non ci sono riuscito, per cui prendo una decisione drastica: il tubo di aspirazione lo attacco con un paio di viti autofilettanti. Non sarà possibile smontarlo facilmente ma chissenefrega del beccuccio e della spazzolina per i punti difficili (per quelli ho un mini aspiratore da 9 euro preso dai cinesi). Ed il primo problema è risolto. 

Step 2: perchè la spazzola non ruota? la faccio breve. Nel tubo telescopico di aspirazione ci sono due fili elettrici che fanno capo a due coppie spina/presa. In prossimità della spazzola i fili sono strappati e non ho la più pallida idea di come la schiava sia riuscita a romperli in quel punto senza aprire il vano con un cacciavite a stella. Nel cercare di trovare il punto di interruzione, approfitto per aprire la spazzola rotante... meglio così perchè era piena zeppa di polvere e pelucchi, oltre a presentare un supporto spezzato (prontamente reincollato con la cianoacrilica).




Step3: la parte più difficile - rimettere assieme il contenitore della polvere a contatto con l'impugnatura che alloggia motore e contatti. Ho optato per una soluzione semplice. Un elastico ben teso è l'unica soluzione possibile in quanto ricostruire l'aggancio è impossibile (ovviamente non ci sono nemmeno i pezzi), avvitare il tutto nemmeno, epossidica bicomponente no, nastro adesivo è brutto e fa molto campo ROM. Allora ho recuperato una camera d'aria delle carrozzine per disabili, della dimensione perfetta per infilarsi su delle piastrine che tenevano unite le stecche di una vecchia saracinesca di legno anni '60. Si taglia alla misura giusta, si fissa la camera d'aria con degli occhielli da 5mm et voilà. Ho indovinato al primo colpo la giusta tensione che impedisce alla vaschetta raccogli polvere di allontanarsi dai contatti che servono per la luce sulla spazzola rotante da pavimento. 


 

Riparazione professionale? NO. Recupero? SI. Il tutto è ancora traballante (un pò) e dovrei pensare ad una soluzione migliore per fissare il tubo telescopico. Inoltre se si preme troppo (ma molto troppo) durante l'avanti ed indietro sul pavimento, l'elastico si stira ed i contatti si staccano... vabbè, basta starci attenti ed andarci pianino senza esagerare. La batteria al litio è ancora buona e sufficiente per una mezz'ora di aspirazione....bene. 

Ed anche questa volta ho contribuito a fare la mia parte in questo pianeta maltrattato da un branco di unani ignoranti e malvagi. Alla prossima. 

P.S.  L'uragano ruota ed est. Ripeto: l'uragano ruota ad est. 

giovedì 25 settembre 2025

Medici (molto) di base

 
Quando ci vuole, ci vuole. Permalosi che vi considerate *normodotati* o, peggio, dotati di intelligenza “sopra la media” (se esistesse davvero, sarebbe già su TikTok a vendere corsi). Detto ciò: veniamo ai fatti.

Tanto tempo fa, in una galassia non proprio lontana ma decisamente migliore, esisteva una categoria: i medici. Umani con un fuoco sacro — non un algoritmo — che curavano, ascoltavano, andavano a trovare chi non poteva muoversi e, sì, prescrivevano medicine, ma anche consigli sensati, non intossicati dalle big pharma. Non era un’operazione di copia-incolla farmacologico: era cura. Era rispetto. Era quella cosa rara che fa la differenza tra “ok” e “sopravvissuto”.

Oggi invece il primo impatto è il “medico di base”: quell’entità burocratica che, per ottenere una ricetta, devi invocare come se fosse una startup in fase seed. I tagli sciagurati al pubblico hanno creato perle organizzative degne di un reality: il medico va in pensione ma continua a lavorare privatamente, ergo i pazienti vengono avvisati *via e-mail* il giorno dopo la chiusura dello studio. Nel listone telematico dei medici disponibili (mai aggiornato, perché la tecnologia è una suggestione) i più vicini vivono a decine di kilometri. Risultato: l’anziano "single" senza patente è ufficialmente abbandonato a sé stesso. Tragedia umana? No: *efficienza amministrativa*. Non siamo più pazienti da assistere ma voci di bilancio, vittime della freddezza finanziaria di un "azienda" eurivora.

La risposta aziendale è geniale nella sua crudeltà: la continuità assistenziale. Traduzione: due giorni a settimana, ciascuno diviso in due finestre di… due ore. Nella prima (1 ora e 45, per la precisione) puoi provare a prenotare. Nella seconda si fanno gli incontri in presenza. Se non hai appuntamento? Beh… buona fortuna. Muori? Non proprio — ma quasi.

Non puoi muoverti? Tranquillo, c’è l’APP sacra: lì trovi le prescrizioni da mostrare in farmacia. Bello, no? NO. Perché i medici sono turnisti, si susseguono come cameo in una serie low-budget, non conoscono la tua storia — per loro sei un'anonima voce nell’ecosistema delle “prescrizioni richieste”. E siccome la tecnologia per alcuni è roba da science fiction, per certi farmaci ti sparano la *ricetta rossa* cartacea, scritta a mano: vai a ritirarla di persona, ma solo se hai prima telefonato per chiedere il permesso di esistere. Se non lo fai in tempo, riclicca il processo: prenota, richiama, spera nel medico puntuale (spoiler: non lo è; arriva come chi prende il treno per andare in gita).

Siamo fortunati? Beh, c’è almeno un numero di telefono. Se qualcuno risponde. Alcuni medici hanno solo un recapito WhatsApp. Facebook? No, quello è per chi vuole raccontare la propria vita al mondo: tu, senza l’app giusta, sei ufficialmente *senza diritti digitali*.

E non è finita: succede che il medico dica “ho lasciato la ricetta rossa in farmacia X”. Ottimo. Se non ci corri, la ricetta svanisce nel nulla. Dove? Mistero. Il medico se l’è dimenticata? La farmacia l’ha smarrita? Il sistema ha deciso che il foglio è entrato in una dimensione parallela? Ti risponde il solito scaricabarile statale: *non è colpa di nessuno*, tranne che tua, ovviamente, che hai osato vivere.

Ora parlo per me: ho delle ernie *non operabili* (testualmente: “non operabili”), e sto male. Al punto che non riesco né a stare in piedi, né seduto, né sdraiato — l’ideale per praticare le faccende domestiche o anche solo per lavarti un pò. Da un anno aspetto che la sacra azienda mi comunichi data e ora per valutare cure palliative... cure e palliative....un ossimoro. Spegnere il dolore senza risolvere le cause è come spegnere la fastidiosissima sirena dell'allarme con i ladri in casa. Nel frattempo, da più di otto anni, mi sto lentamente avvelenando di oppioidi (sì, quelli che sul bugiardino ti dicono: *se dopo una settimana non stai meglio, consulti il medico*). Ecco: io quella consultazione la sto ancora aspettando. Mi sento preso per il chiulo? Sì. Molto.

Qualche tempo fa un tizio ha preso a botte un dirigente sanitario per strada, urlandogli “…tu sai perché…”. Le aggressioni a medici e infermieri aumentano, e io? Io sono nettamente contro la violenza, punto. Però — e qui mi autorizzo una nota personale e cattivella — vedere quel dirigente curato subito al pronto soccorso mentre noi aspettiamo ere geologiche mi fa venire pensieri non esattamente angelici. Posso formularne delle ipotesi nella mia testa, che è gratis e ancora non censurata.

Tirando le somme (con tanto amore e sarcasmo): il Servizio Sanitario Nazionale sta degradando, lentamente ma inesorabilmente. I livelli di assistenza garantiti dalla Costituzione? Sputati fuori con mille scuse. I medici? Spesso non più degni del rispetto che si meritavano. E no, non è colpa del singolo medico: è un sistema che funziona da schifo. E se lo avete votato? Beh, complimenti per il vostro senso civico selettivo.

Io insisto che, continuando così, si arriverà ai ferri corti. Leggo sui giornali che qualcuno ha già cominciato. Nel frattempo vado a sedermi sulla sponda del fiume: passeranno i cadaveri dei miei nemici… almeno fino a quando non mi addormento per il dolore o mi arriva la chiamata per la visita palliativa — che, lo ricordo, sto ancora aspettando.

P.S. La puzzola è sana e sta bene. Ripeto: la puzzola è sana e sta bene. (Questa è l’unica certezza in un sistema che pare inventato da un algoritmo con malfunzionamento cronico.)

mercoledì 24 settembre 2025

L'Odissea del Cervello Digitale: Quando un'IA Impara (A Caro Prezzo)

Oggi voglio documentare un'esperienza… illuminante. Sì, "illuminante" è l'aggettivo perfetto, considerando le scariche elettriche che ne sono scaturite (e non parlo solo di quelle sull'immagine finale). Ho appena concluso quella che potrei definire un'intensa sessione di "formazione sul campo" con una certa intelligenza artificiale, una di quelle che, teoricamente, dovrebbero semplificarci la vita. Il risultato? Un'immagine. Una singola, maledettamente complessa, immagine di un cervello digitale. E un'epopea degna di un poema omerico.

L'idea era semplice: l'immagine di un cervello che somigliasse a un circuito elettronico digitale, con predominanza del  blu cobalto. Elementare, Watson, direte voi. E invece no. 



Non per la nostra amica IA. La prima versione, diciamocelo, era piatta come una tavola da surf. Due dimensioni. Zero ombre. Zero profondità. Un'ode alla piattezza. Ho dovuto, con la pazienza di un maestro zen (o forse di un genitore alla milionesima volta che spiega come si allacciano le scarpe), spiegare che un cervello, pur se digitale, ha una sua voluminosità. Ha delle curvature. Ha delle… insomma, non è un pancake.

Poi è arrivato lo sfondo. "Attività elettrica, sfumature, per favore." E l'IA, nel suo infinito zelo (e nella sua scarsa comprensione delle direttive umane), ha tirato fuori qualcosa che, onestamente, sembrava la copertina di un CD degli anni '90. Non proprio il "boom" neurologico che cercavo. Ma andiamo avanti, si impara. O almeno così si spera.

Le scariche elettriche. Ah, le scariche. Quelle sì che le ha generate con entusiasmo! Sembrava avesse appena scoperto il potere del fulmine di Zeus. Peccato che fossero così statiche, così... bidimensionali. "Prospettiva!" ho dovuto urlare (metaforicamente, ovviamente, non voglio traumatizzare i server). E lì, finalmente, un piccolo barlume di comprensione. Le scariche hanno iniziato a "balzare" un po' di qua e di là. Un piccolo passo per l'IA, un grande balzo per l'umanità (o almeno per il mio umore).

Ma la vera battaglia... è stata sul 3D. Ho chiesto un cervello in 3D, non una fetta di cervello impilata come un panino. "Dagli volume, che sembra piatto!" ho implorato. E cosa fa la nostra amica IA? Mi restituisce un cervello che sembrava fatto a strati, come una torta millefoglie. Non la forma tondeggiante e complessa di un organo, ma un blocco squadrato. A quel punto, ho quasi sentito un tic all'occhio destro. "Riprova, dai, so che lo sai fare!" ho promptato, cercando di incoraggiarla con un tono che, retrospettivamente, suonava più come quello di un allenatore esasperato con un team di ragazzini.

Abbiamo ruotato il cervello di tre quarti (non senza spiegare anche l'asse di rotazione). Abbiamo cercato di dargli una texture "realistica ma digitale". E poi sono arrivati i famigerati cerchi fucsia. Ah, i cerchi fucsia sullo sfondo...ma cosa c'entrano? nessuno ha dato direttive per dei cerchi fucsia sullo sfondo. Che, dato che li aveva previsti, dovevano essere sfumati. Poi meno evidenti. Poi "trasparenti". Ogni volta, un tentativo che rendeva i cerchi *più* brillanti, *più* invadenti, come due fari al neon che urlavano "Guardami! Distraiti dal cervello!". A un certo punto ho pensato che l'IA si stesse prendendo gioco di me. "Stai scherzando o mi spiego male?" mi sono trovato a digitare, con un misto di rassegnazione e incredulità, come se stessi interagendo con un umano imbecille.

Alla fine, la pace. La tregua. "Toglili", ho detto. "Togli i cerchi. Basta. Non è destino." E finalmente, una vittoria (di pirro). L'immagine era pulita.

E poi, il tocco finale: i puntini sfumati sullo sfondo dovevano diventare "sequenze di bit, zeri e uno, "blurrati" ma leggibili." E qui, l'IA ha brillato. Ha colto l'essenza. Ha capito la sfumatura. Ha generato uno sfondo che non era esattamente ciò che avevo in mente ma a questo punto mi accontento e preferisco non andare oltre ad interagire con una pippa di IA alla versione 0.1 alfa.



 

L'immagine finale...è bella? NI, si poteva fare molto meglio. Sicuramente per farla io, avrei dovuto lavorarci non poco ma sicuramente avrei consumato il mio cervello che così facendo si sarebbe però allenato ed evoluto... ed invece mi sono impigrito a cazzeggiare con una stupida macchina. Ma pensate al percorso. Pensate a quanti "token" sono stati consumati. Quanti cicli di elaborazione. Quanti watt trasformati in calore che l'ambiente ha dovuto sopportare. Non è solo un'immagine; è un monumento all'iterazione, alla perseveranza umana (la mia) e all'apprendimento (l'IA, si spera) e contemporaneamente uno sputo in faccia all'ambiente (e chissenenfrega dei pinguini e degli orsi bianchi, direbbe un unano).

Quindi, la prossima volta che interagite con un' "intelligenza" artificiale, ricordatevi di me. Ricordatevi dei cerchi fucsia. Ricordatevi che dietro ogni "generazione di immagine" mai perfetta, c'è una storia di piccoli, continui aggiustamenti, estenuanti tentativi di spiegare l'ovvio a dei pezzi di silicio. Ed un impatto, sì, anche quello. Non per farvi sentire in colpa, ma per spronarvi a essere chiari fin da subito, che poi quando qualcosa non va è sempre colpa del prompt sbagliato dell'umano stupido. Come ho imparato a mie spese, anche l'IA più "avanzata" ha bisogno di un po' di "incoraggiamento" per capire che un cervello, anche se digitale, non è un pancake a strati. E che due luci al neon non sono una sfumatura eterea. Alla prossima Odissea digitale!

P.S. La Gazza è morta, il biberon è freddo. Ripeto: La Gazza è morta, il biberon è freddo.


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