giovedì 27 novembre 2025

Bèpi Sugamàn e l’Inteigensa Artificiàe

 


In questi anni ho conosciuto un nuovo animale mitologico del panorama imprenditoriale italiano: il Bèpi Sugamàn Digitale. È una creatura affascinante, un misto tra spaccone di periferia e guru dell’innovazione immaginaria. Si avvicina a te — consulente, tecnico, professionista — con l’aria di chi sta per rivelarti il segreto dell’universo, poi apre bocca e parte la fiera del nonsense.

L’esordio è sempre questo: “Mi serve l’inteigènsa artifiçiàe. La ghe vol. Oh, la xè el futuro.” In quel momento capisci che non c’è speranza. Hai davanti uno che non distingue un file PDF da una grattugia, ma vuole l’AI “perché lo dice Internet” (o suo cugino ragioniere).

Come riconoscere un Bèpi Sugamàn digitale

Facile. Ha una serie di caratteristiche inconfondibili:

  • Dice “voglio l’AI” con lo stesso tono con cui ordinerebbe una pizza capricciosa.
  • Usa WhatsApp per tutto, anche per mandarti file che sarebbe illegale far vedere persino al parroco.
  • Ha un gestionale scritto nel 1998 da suo cognato e pretende che “si colleghi all’AI”.
  • Ha paura del cloud ma manda contratti via screenshot.
  • Paga sempre in ritardo, ma “spende volentieri se il lavoro è fatto bene”, cioè mai.
  • Vuole decidere le strategie tecniche perché “lui è il titolare”.

E soprattutto, la sua frase preferita:

“Mi so cossa serve. Te basta che me fassi el programìn.”

Il programìn. Oggetto leggendario, tipo il Sacro Graal. Non si sa cosa sia, non si sa cosa faccia, ma lui è certo che esiste.

Perché NON lavoro con questa gente

Io non faccio miracoli. Non faccio magia nera. Non sono un domatore di incompetenze.

Io progetto, analizzo, pianifico, integro. E quando serve, dico dei “no” lunghi come la tangenziale di Mestre.

Perché il bèpi sugamàn:

  • non ascolta;
  • non capisce;
  • ma soprattutto non vuole capire.

Lui vuole l’AI come status symbol: per sentirsi moderno, per far colpo sulla moglie, per poter dire al bar “go messo l' inteigensa artifiiciae nel capanòn”.

A questi soggetti ricordo sempre un dettaglio importante: l’intelligenza artificiale non compensa la stupidità naturale.

Sillogismo

Premessa 1: Se non ascolti il tecnico, fai danni.
Premessa 2: Il bèpi non ascolta.
Conclusione: Il bèpi è un progetto di bonifica, non di consulenza.

Il cliente ideale (per me)

Io lavoro con persone che hanno tre qualità:

  • umiltà professionale;
  • fiducia nell’esperto che pagano;
  • capacità di non dire stupidaggini mentre io progetto.

Perché se vieni da me a dirmi cosa devo fare, come devo farlo e quanto ci devo mettere, un dubbio mi viene: se sei così bravo, perché non te lo fai da solo?

Io non sono un muratore digitale, non vengo a tirarti su i muretti delle tue idee sbagliate. Io progetto case, non rattoppo pollai.

La parabola del SUV e del trattore

Il bèpi vuole l’AI come chi compra un SUV da 200.000 euro per fare due rotonde. Poi però si infila in una stradina di campagna, si impantana e dice che è colpa della macchina.

La verità è semplice: se non sai guidare un trattore, non puoi pretendere di pilotare un jet.

Ma prova a spiegarglielo: ti risponde che “lui ha esperienza”. Certo: esperienza nel complicarsi la vita.

Conclusione: il test del fegato

Se dopo aver letto questo articolo ti sei divertito, probabilmente sei un tecnico, o un imprenditore intelligente. Se ti sei irritato, rivediamo insieme il sillogismo: forse fai parte del problema, non della soluzione.

Io lavoro con chi vuole crescere, non con chi vuole comandare senza capire. Se cerchi un consulente che ti dica sempre sì, non sono io. Se cerchi uno che ti dica la verità, anche quando fa male, allora sì: parliamone.

Meglio pochi clienti, ma intelligenti. L’intelligenza artificiale è potente, ma quella naturale — quando c’è — vale molto di più. 

P.S. latte uova e farina sbattute assieme non fanno una torta. Ripeto:  latte uova e farina sbattute assieme non fanno una torta.

giovedì 20 novembre 2025

Il dolore è reale, la sanità un po’ meno

 


Ci sono momenti in cui ti accorgi che stai invecchiando non dal compleanno, ma dal fatto che per alzarti dal letto devi contrattare con le tue vertebre come con un sindacato ostile.

Hai male. Male serio. Ti affidi al Sistema™. E lì scopri che il dolore è una cosa tua, personale, intima.
Il resto è burocrazia, marketing e appuntamenti “quando non servirà più”.

Benvenuti nel Paese dove la terapia del dolore è considerata un hobby.


Il medico di base: entità mitologica di cui si narrano leggende

Sulla carta esiste il “medico di medicina generale”.
Nella pratica, spesso è:

  • irreperibile,

  • sovraccarico,

  • in pensione con la firma ancora sulla porta,

  • oppure semplicemente un nome in un elenco che nessuno aggiorna.

Tu intanto hai dolore vero, non quello da bugiardino.

Vorresti qualcuno che ti conosca, che abbia letto almeno una volta la tua storia clinica.
Invece la realtà è questa: “Se vuole essere visitato, si rivolga a chi capita, prenda un numerino virtuale e speri che non vada via il server”.


Il CUP: Centro Unico Per farti passare la voglia

La terapia antalgica viene prescritta dallo specialista ospedaliero.
Che, di solito, riceve:

  • su appuntamento,

  • da prenotare tramite CUP,

  • con tempistica compresa fra “mesi” e “quando ormai avrai fatto pace col destino”.

Il CUP è un capolavoro di ingegneria sociale:

  • se sopravvivi abbastanza a lungo da arrivare alla visita, vuol dire che forse non stavi così male;

  • se rinunci prima, il sistema ha funzionato: un paziente in meno, un problema in meno.

Nel frattempo, tu ti arrangi.
Perché il dolore non aspetta il turno allo sportello.


La terapia del dolore: lusso da boutique

Poi c’è la parte più gustosa: il trattamento.

Ti propongono un ciclo di iniezioni.
Magari non è neanche un farmaco “pesante”, magari è solo:

“Un integratore, sa, fa bene, costa un po’ ma la qualità si paga…”

Sessanta euro la scatola.
Di integratore.
In fiala.
Da iniettare nel gluteo.

Cioè: ti fanno fare il cosplay dell’eroina iniettiva, ma versione legale e costosa.

La scena è questa:

  • hai 60+ anni,

  • chiappe che hanno visto tempi migliori,

  • dolori che non ti fanno dormire,

  • e ti ritrovi con in mano una scatola di vetriolo “wellness” da 60 euro, venduta come se fosse un upgrade alla tua esistenza.

Se poi ti azzardi a dire che forse la seconda scatola, da altri 60 euro, anche no…
ti guardano come se stessi sabotando il miracolo della medicina moderna.


Gli aguzzini sorridenti: il giro dell’ago (e del contante)

In teoria potresti:

  • andare da un infermiere,

  • o in farmacia con servizio infermieristico.

In pratica spesso la musica è questa:

  • “Facciamo in fretta, così non compiliamo troppe carte.”

  • “Vuole la ricevuta? Ah, ehm, allora cambia il prezzo…”

  • “Facciamo che è un favore, eh?”

E tu lì, tra imbarazzo e necessità, con l’ago in mano e il portafoglio aperto.
Il tutto in un sistema che, sulla carta, si riempie la bocca di parole tipo:

“presa in carico del paziente”,
“centralità della persona”,
“appropriatezza delle cure”.

Centralità della persona, sì: centrale il tuo conto corrente, il resto è contorno.


Autogestione eroica: medicina DIY edition

Alla fine ti ritrovi da solo, letteralmente.
Con una scatola di fiale, qualche ago, un dolore che ti sega le gambe e zero accesso reale a un percorso sensato.

E allora scatta la modalità medicina di trincea:

  • ti informi come puoi (quando non ti trattano da criminale per il solo fatto di voler capire cosa ti fanno);

  • ti arrangi con ciò che hai;

  • fai un paio di conti:

    • rischio del dolore non trattato,

    • rischio del “fai da te” (forare lo sciatico o l'arteria femorale),

    • rischio di bruciare centinaia di euro in integratori.

E alla fine, spesso, scegli la soluzione meno irrazionale tra quelle tutte sbagliate.

Non è che non ti fidi della scienza.
È che la scienza non coincide con la filiera di vendita che ti ritrovi davanti.


Sessanta euro risparmiati, dignità salvata (più o meno)

A un certo punto dici basta:

  • una scatola l’hai fatta,

  • la seconda no,

  • il rischio farmacologico è ridicolo rispetto al circo che ti chiedono di alimentare,

  • e decidi che la roulette russa delle punture di “benessere” può pure finire qui.

Ti tieni il tuo dolore, gestito come puoi, ma almeno non finanzi oltre il teatro dell’assurdo.

Sessanta euro risparmiati non ti tolgono il male, ma tolgono almeno la sensazione di essere complice del gioco.


Conclusione: il dolore è un fatto, il rispetto dovrebbe esserlo

Il dolore cronico non è psicologia, non è debolezza, non è “eh ma alla sua età…”.
È un problema reale, misurabile, che ti trasforma la giornata e la testa.

Quello che manca, troppo spesso, non sono le molecole, ma il rispetto:

  • rispetto del tempo del paziente,

  • rispetto della sua intelligenza,

  • rispetto del suo portafoglio,

  • rispetto del fatto che non tutti possono vivere in funzione degli orari di un CUP progettato per scoraggiare.

Si riempiono la bocca con “diritto alla salute”.
In pratica, spesso, il messaggio è un altro:

“Hai diritto a soffrire in coda, in silenzio, e possibilmente pagando extra se non vuoi aspettare.”

Il dolore è reale.
La sanità, certe volte, sembra ancora in versione beta privata. Alla prossima.

P.S.  Meglio un culo gelato che un gelato in culo. Ripeto:  Meglio un culo gelato che un gelato in culo.

giovedì 13 novembre 2025

Quando Debian cresce ed Apache fa i capricci

Cronache di un vecchio sistemista che non si fa fregare da PHP. 


 

C’è un momento, nella vita di ogni vecchio sistemista, in cui senti quella vocina interiore che sussurra: «È uscito Debian nuovo… che fai, aggiorni?»

E tu, invece di ascoltare l’istinto di sopravvivenza, aggiorni.

Finché, ovviamente, non arriva lui:
apache2.service: FAILED
e il tuo server di fiducia ti guarda in silenzio come un gatto offeso.

Primo atto: Apache muore, ma con stile

Scenario: server Debian 13 nuovo di zecca dopo upgrade. Apache non parte, journalctl ti spara in faccia qualcosa del tipo:

Syntax error su una riga di apache2.conf, e poi:

Syntax error on line 3 of /etc/apache2/mods-enabled/php8.2.load:
Cannot load /usr/lib/apache2/modules/libphp8.2.so into server: ...


Traduzione per umani:
- Apache di suo è tranquillo.
- È PHP 8.2 che è rimasto appeso come un ex che non capisce di essere stato lasciato.
- Il file libphp8.2.so non c’è più, ma la configurazione prova ancora a caricarlo.

Apache, giustamente, si rifiuta di partire con mezzo arto fantasma attaccato.

Il sistemista giovane a questo punto formatta il server o dà la colpa a systemd.
Il sistemista navigato invece fa una cosa molto blasfema ma efficace:

apachectl -t

legge l’errore con calma, individua il colpevole (php8.2.load) e lo spegne:

a2dismod php8.2
apachectl -t
systemctl restart apache2


E Apache torna a respirare. Senza PHP, ma respira.

Come quando riaccendi un vecchio server rimuovendo a mano la scheda SCSI di cui nessuno si ricordava.

Secondo atto: il 403 che ti guarda giudicante

Risolto il crash, arriva il passivo-aggressivo di Apache:

403 Forbidden – You don’t have permission to access this resource.

E tu pensi: «Ma se ha SEMPRE funzionato, perché ora no?»

Classico mantra del sysadmin: “ma non ho toccato niente” (tranne un major upgrade, tre moduli e mezza distro nuova, dettagli).

Qui entra in gioco il lato artigiano di bottega del sistemista.

- DocumentRoot del sito di test, per esempio: /home/utente/www/sito.local
- In apache2.conf c’è un blocco tipo:

<Directory /home/utente/www/>
    Options Indexes FollowSymLinks
    AllowOverride None
    Require all granted
</Directory>

Sulla carta è tutto giusto. Nella pratica, Apache gira come utente www-data e, se la home è un bunker tipo:

drwx------  /home/utente

allora www-data non entra. Non per cattiveria: manca la “x” sul percorso, e senza execute sulle directory, nel mondo Unix non passi.

Quindi, con mano ferma (non in modalità “chmod 777 a pioggia”, quello è peccato mortale) si fa:

chmod 711 /home/utente
chmod 755 /home/utente/www
chmod 755 /home/utente/www/sito.local


- 711 sulla home: nessuno vede i file, ma Apache può attraversare la directory.
- 755 sul webroot: la vecchia scuola, onesta e prevedibile.

Risultato: il 403 sparisce.
Il sistemista sorride.
Per 5 secondi.

Terzo atto: il PHP che invece di girare… si scarica

Appena pensi “ok, è fatta”, apri il sito e il browser ti chiede candidamente:

“Vuoi aprire o salvare un file di tipo application/x-httpd-php?”

Ed è lì che un brivido ti scende lungo la schiena. Quando il browser ti propone di scaricare un file .php, vuol dire una cosa semplice:

“Il server non lo sta più eseguendo. Te lo sta dando paro paro.”

Apache è vivo, ma nessun modulo PHP è attivo. È come avere il forno acceso senza la resistenza: luce c’è, calore zero.

Un occhio a mods-available e mods-enabled:

ls /etc/apache2/mods-available/php*
# php8.2.conf, php8.2.load, php8.4.conf, php8.4.load (per esempio)

ls /etc/apache2/mods-enabled/php*
# (vuoto)

La nuova Debian, nel frattempo, ha fatto il salto generazionale:
- sul sistema c’è libapache2-mod-php8.4,
- il PHP CLI è 8.4,
- ma Apache… non lo sa ancora.

E qui entra in scena l’esperienza.

Il pivello scriverebbe:

a2enmod php

e si offenderebbe per l’errore:
ERROR: Module php does not exist!

Il sistemista navigato guarda i nomi dei file e dice: “Ok, tu vuoi il nome esatto del modulo, non le astrazioni filosofiche.”

Quindi:

a2enmod php8.4
apachectl -t
systemctl restart apache2


E, come un vecchio televisore a valvole preso a schiaffi sul lato giusto, PHP riprende a funzionare.

Quarto atto: archeologia digitale, ovvero “purga gli ex”

A questo punto PHP 8.4 gira, Apache è felice, il sito risponde. Nel sistema però sono rimasti i fossili di PHP 8.2 in stato rc nei pacchetti:

rc  php8.2-...
rc  libapache2-mod-php8.2 ..
.

Ed il vecchio sysadmin sa che i residui, oggi non danno fastidio, ma fra tre anni, in una notte di manutenzione, ti salta fuori un conflitto assurdo.

Quindi, senza pietà:

apt-get purge 'php8.2*' 'libapache2-mod-php8.2'
apt-get autoremove --purge


Non è solo pulizia: è igiene mentale. È come buttare via finalmente i floppy da 3,5" vuoti “che non si sa mai”.

Quinto atto: il log, la shell e l’ennesima trollata

Nel frattempo, mentre controlli i moduli:

apachectl -M | grep php || echo "Nessun modulo php caricato"

la shell, se ti scappa un punto esclamativo non quotato, potrebbe rispondere con il classico:

-bash: !: event not found

Non è Apache.
Non è PHP.
È bash che decide di interpretare il “!” come espansione di history.

Questo è il momento in cui il vecchio sistemista sospira, guarda la console e pensa:
“Io e te ci conosciamo da decenni e ancora mi fai questi scherzi…”

Si sistema la cosa, si toglie il punto esclamativo, e si va avanti.
Perché il diavolo sta sempre nel dettaglio, ed il dettaglio parla shell.

Epilogo: vecchio sistemista, nuovo Debian

Alla fine della storia, la situazione è questa:
- Debian aggiornata.
- Apache in piedi, tranquillo.
- PHP 8.4 attivo via libapache2-mod-php8.4.
- Vecchi moduli falciati, permessi sistemati chirurgicamente.
- Il sito in /home/utente/www/sito.local gira come se nulla fosse successo.

E il vecchio sistemista?

Non ha reinstallato, non ha “dockerizzato tutto per disperazione”, non ha invocato l’AI gridando al miracolo.
Ha solo:
- letto i log,
- analizzato gli include,
- capito chi tirava giù chi,
- sistemato moduli, permessi e residui,
- mantenuto il controllo dall’inizio alla fine.

Perché la differenza vera non è tra chi conosce il comando giusto da copiare, ma tra chi sa leggere cosa sta succedendo e ricostruire il film mentale della macchina.

Alla fine, questo upgrade è stato solo un’altra puntata della stessa serie:
“Debian cambia, i moduli cambiano, i log trollano… ma il vecchio sistemista resta lì, con il suo apachectl -t e quella calma da meccanico che sente il motore dal rumore.”

E quando il sito torna su e il PHP gira, non servono fanfare. Basta un curl -I andato a buon fine e quel piccolo, soddisfatto: “Ok, anche stavolta non mi hai fregato.” Alla prossima.

P.S. Curla i trolls. Ripeto: Curla i trolls.  

mercoledì 12 novembre 2025

Cronache di un tecnico sudato nel metaverso dei dischi offesi

Ci sono giorni in cui fai il login, controlli due log giusto per sport, sorseggi un caffè e la vita scorre. Poi ci sono i giorni in cui il filesystem decide che scrivere è sopravvalutato e si auto-proclama read-only come un giudice in ferie. Indovinate quale ho beccato.

Sillogismo del giorno:
– Se un server non scrive, non rinnova i  certificati SSL.
– Se non rinnova, il certificato scade.
– Se scade, qualcuno urla.
Conclusione: se un server non scrive, qualcuno urla. (Di solito verso di me.)

La mattina in cui il giornale (di sistema) mi ha detto “no”

Apro la console e lei, fredda: “Journal aborted, journal flushed, remounting read-only.” In pratica il diario segreto del sistema si è strappato, e si è messo a guardare il soffitto. Nel mondo fisico avrei preso il cacciavite, aperto il case, sentito il profumo di elettronica tiepida e — all’occorrenza — premuto il kill switch con la grazia di un samurai. Nel mondo virtuale? Niente pulsantoni rossi, niente “stacca e riattacca”: solo interfacce che sorridono e dicono “Running” come se stessi esagerando io.

L’ansia? Presente. Il sudore? Pure. L’ironia? Necessaria.

La piattaforma applicativa, poverina, non c’entra: fa il suo mestiere e rimane lì, educata, ad ascoltare sulla sua porta come un portiere di notte con gli auricolari. Il problema è più sotto, a livello di astrobiologia del blocco, dove qualche folletto ha deciso che i blocchi disco devono fare sciopero. Io, nel frattempo, faccio il backup in sola lettura, ossia l’equivalente digitale del “non tocchiamo nulla ma portiamo via tutto”: forense vibes, mani in alto, nessun file verrà maltrattato.

Tentativo n.1: chiedere per favore

Provo a fermare i servizi con la delicatezza di chi sussurra a un cavallo. La risposta del sistema è una poesia dadaista: “Failed to activate service org.freedesktop.qualcosa: timed out.” Traduzione: “Oggi non ho voglia”. Respiro. Conto fino a hex(FF). Non cambia.

Tentativo n.2: il regno del “rescue”

Ok, plan B: avvio dal ramdisk di soccorso — quello che, per capirci, è come chiamare il carro attrezzi in autostrada alle tre di notte. Entro, mi guarda un prompt monacale, e finalmente posso eseguire fsck a freddo: la fisioterapia che rimette a posto il menisco al file system. Prima scansione, seconda passata, terza per scaramanzia. Il tutto documentato, perché gli screenshot passano, i log restano.

“Sparare alla CPU”: guida all’impossibile

Nel frattempo mi domando: “C’è un modo per sparare alla CPU virtuale?” Spoiler: no. Il mondo cloud non ama la letteratura western. Il massimo che puoi fare è chiedere gentilmente all’infrastruttura di scollegare la spina in silenzio. È un po’ come essere inseguiti da un cinghiale e dover inviare una PEC al parco naturale per chiedere se si può correre più forte.

Il paradosso delle interfacce troppo gentili

Le dashboard sono il paradiso della passivo-aggressività. Hanno pulsanti rotondi, etichette zen e quel verde “Active” che ti dice: “Tutto va benissimo.” Tu, però, stai leggendo in console: “I/O error on superblock”. È come avere il cruscotto dell’auto che mostra 120 km/h costanti mentre il motore canta “Bella Ciao”.

Il trucco sta nel ordine operativo

E qui scatta la disciplina:

  1. Backup in pull dalla mia postazione: se il disco vuole fare il minimalista, io faccio il collezionista — prendo tutto ciò che serve (config, dati, chiavi), senza scrivere un bit in più.

  2. Rescue e fsck a freddo: niente sorprese, niente “monta e smonta” in caldo; riparazione metodica, due passate, log in tasca.

  3. Rientro in produzione con controllo maniacale: mount in rw, errori zero nel dmesg, servizi su.

  4. Certificati: clic su “resetta e salva”, che tradotto significa “parla con l’autorità giusta, fai la challenge su 80 e torna con un certificato fresco come una brioche alle 6:00”.

Metafora n.1 — Il filesystem filosofo

Il filesystem in sola lettura è come quel professore che risponde sempre “dipende” ed alla fine promuove tutti per non dover fare verbali. Ti impedisce di fare danni, ma ti impedisce anche di lavorare. Lo ringrazi, lo saluti, poi lo accompagni gentilmente in laboratorio per una revisione del diario.

Metafora n.2 — Le VM come matrioske

Le macchine virtuali sono matrioske educatissime: apri una console dentro un hypervisor dentro una rete dentro un pannello. E tu lì, che cerchi il bullone vero, quello che stringe, e invece trovi un menu a tendina. Funziona, ma ogni tanto vorresti sporcarti le mani di rame e stagno.

“Ma i dati?”

Stanno bene. Non hanno perso neanche un bit. Prima si salva, poi si cura. Ordine inverso = panico. E siccome di panico ne ho già avuto a sufficienza quando ho scoperto che non si può tirare una testata alla CPU virtuale, ho preferito la via classica: copia, verifica, ripara, riavvia, collauda, certifica.

Ironia sì, scaricabarile no

C’è un punto che merita chiarezza: non è una storia di negligenze. È una storia di infrastrutture che ogni tanto si stiracchiano, come tutti gli esseri (ed i non-esseri) stanchi. L’importante è avere procedure e ordine mentale: una lista corta, ripetibile, che porti il sistema da “sudore freddo” a “tutto verde”.

Esempi pratici per colleghi stanchi ma ostinati

  • Se il disco diventa ro, non forzare scritture di comodo. Salva, prova, ripara a freddo.

  • Se l’interfaccia dice “Running” ma il cervello dice “No”, scegli la strada deterministica: rescue o cold-attach ad un’altra istanza, fsck, ritorno.

  • I certificati? Niente teatrini: auto-renewal dell’app, challenge su 80, due log di conferma e via.

  • Comunicare al cliente con tono calmo: “nessuna perdita”, “ripristino completato”, “analisi infrastrutturale in corso”, "la colpa è di IaaS".

  • E ricordarsi che l’esperienza non elimina l’ansia: la domina.

Chiosa (con domanda retorica)

Perché continuo ad amare questo lavoro? Perché è una maratona di paradossi eleganti: facciamo cose fisiche nel mondo non fisico, domiamo errori invisibili con procedure visibilissime, e quando tutto torna online la soddisfazione è quella di aver riportato a casa la nave in mezzo alla tempesta, senza neppure bagnarsi i piedi (ok, il sudore non conta).

TL;DR per LinkedIn (che tanto leggerete lo stesso)

– Disco in protesta → read-only
Backup prima di tutto
Rescue + fsck a freddo
– Rientro in rw, servizi su
Cert reset: challenge, emesso, fine.
Zero perdita dati, clienti sereni, e il tecnico… meno sudato (per ora).

La morale? Nel cloud non puoi “sparare alla CPU”, ma puoi ancora sorridere, loggare e ripartire. E sì, ogni tanto manca quel tasto fisico OFF grande come un piatto: ma forse è un bene. Ci rende metodici, non solo muscolari. E quando l’ansia chiama, rispondi con il manuale d’ordini, qualche riga di bash e una buona dose di sarcasmo. Funziona quasi sempre. Quasi. Alla prossima.

P.S.  Il barometro segna variabile; alla quarta campana il mare si quieta. I colibrì non temono i dischi pigri. Chi ha orecchie per i log, legga. Ripeto: Il barometro segna variabile; alla quarta campana il mare si quieta. I colibrì non temono i dischi pigri. Chi ha orecchie per i log, legga.

martedì 21 ottobre 2025

Sopravvissuto a Winzozz11 senza TPM


 

🧟‍♂️  “Alcuni scalano montagne. Io ho installato Wind*ws 11 su un DELL Precision M4500...E sono ancora vivo per raccontarlo.”

C’è chi passa il weekend a passeggiare nei boschi.
E poi ci sono io, che ho deciso di trascorrere il lunedì a combattere con l’ultima incarnazione del male: Wind*ws 11, quella creatura che pretende un chip TPM 2.0 per avviarsi, un Secure Boot per respirare ed un account Micro$oft per andare al bagno.

Sulla carta, il mio fedele DELL Precision M4500 (anno domini 2010, cavallo di razza, ancora ruggente) doveva essere “incompatibile”.
Secondo Redmond, sarebbe stato più facile installare Linux su una lavatrice che Wind*ws 11 su quel portatile.
Spoiler: indovina chi ha vinto.


🧩 Capitolo 1 – Il messaggio di morte

Accendo il laptop, entro nel BIOS, attivo l’UEFI e…“No bootable devices -- strike F1 to retry boot.”  Che poesia.


Tradotto: hai appena chiesto a un firmware del 2010 di comportarsi come un razzo Falcon 9.

Wind*ws 10, fino ad un minuto prima, andava come un treno.
Poi, solo perché ho osato pronunciare la parola “UEFI”, si è offeso.
E da lì è cominciata la discesa negli inferi dei messaggi d’errore, delle partizioni GPT, e dei flag “Micro$oft Basic Data” (già il nome ti fa capire che serve solo a confondere gli altri).


⚙️ Capitolo 2 – Il rito voodoo della conversione MBR→GPT

Grazie ad un oscuro incantesimo chiamato:

mbr2gpt /convert /allowFullOS

sono riuscito a far credere al disco di essere giovane, moderno e “GPT compliant”.

Un po’ come truccare la carta d’identità a un settantenne per farlo entrare in discoteca.

Dopo un paio di riavvii, il vecchio Precision si è guardato allo specchio ed ha detto:

“Sono UEFI inside.”

Bugia, ma lasciamogliela credere.

💀 Capitolo 3 – TPM? Secure Boot? No, grazie.

Nel BIOS c’era una voce: “TPM Security”.

Tre opzioni: Activate, Deactivate, Clear.

Io ho scelto “Deactivate”, che suona bene come “non rompere le palle”.

Il Secure Boot invece non esiste proprio.

E sai cosa? Funziona lo stesso.

Questa è la parte che fa più male a Micro$oft: scoprire che tutto il teatrino del TPM e del Secure Boot è solo una trovata di marketing travestita da “sicurezza”.


🧙 Capitolo 4 – Rufus, l’arma segreta

Quando l’assistente ufficiale di installazione mi ha detto:

    “Questo PC non soddisfa i requisiti minimi…”

ho smesso di ridere dopo dieci minuti.

Poi ho preso Rufus, quel piccolo software ribelle che ti guarda negli occhi e ti sussurra:

    “Vuoi rimuovere TPM, Secure Boot e RAM minima?”

    Sì, Rufus, voglio rimuovere anche la dignità di Wind*ws.

Una spunta, un clic, e la ISO di Wind*ws 11 si è trasformata in un installer libero da ogni catena burocratica.

La ribellione aveva inizio.


🧩 Capitolo 5 – L’installazione dell’impossibile

Con la chiavetta pronta, ho lanciato il setup.

Il sistema si è guardato attorno, ha cercato il TPM, non lo ha trovato, ha sospirato e… ha continuato.

È come vedere un doganiere che, dopo vent’anni di servizio, si arrende e ti dice:

    “Passi pure, tanto ormai.”

Dopo un’ora e mezza di aggiornamenti, riavvii e schermate azzurrine,

Wind*ws 11 era vivo.

Sul mio M4500.

Senza TPM.

Senza Secure Boot.

Senza un briciolo di vergogna.


🧰 Capitolo 6 – Il trattamento disinfettante

Appena avviato, il sistema ha cominciato a telefonare a casa come un agente segreto in crisi d’identità.

Cortana, Edge, Telemetry, BITS, DoSvc, WaaSMedicSvc (il “medico” che riattiva gli aggiornamenti da solo)…tutti in fila, pronti a succhiarti cicli di CPU e dati personali.

Così è nato win11-slim.ps1: win11-slim.ps1 è uno script PowerShell progettato per:

  1. ridurre al minimo la telemetria e il tracciamento di Wind*ws 11;
  2. ottimizzare prestazioni e tempi di avvio su macchine datate (es. DELL Precision M4500, Vostro 320);
  3. consentire la gestione controllata o totale disattivazione degli aggiornamenti automatici;
  4. fornire una base coerente per ambienti di test, laboratorio o forensi.


L’obiettivo è un sistema più snello, silenzioso e prevedibile, senza ricorrere a software esterni.

In sintesi è uno script PowerShell che sterilizza Wind*ws 11 come si farebbe con un tavolo operatorio.

Via telemetria, via app bloat, via widget, via “esperienze connesse”.

Lasci solo il minimo vitale, e il sistema torna ad essere ciò che avrebbe dovuto:

un’interfaccia, non una religione.


🚫 Capitolo 7 – Il Medic Service: zombie con il camice

Disattivi gli aggiornamenti, e lui si riattiva.

Fermi il servizio, e torna in vita.

È Wind*ws Update Medic Service, lo zombie che non muore mai.

Così gli ho tolto i permessi di lettura al file WaaSMedicSvc.dll:

un piccolo “colpo alla nuca digitale”.

Problema risolto, silenzio di tomba.


🧩 Capitolo 8 – L’SSD fantasma

Poi ho attaccato un SSD esterno da 500 GB.

Linux lo vedeva, Windows no....Perché?

Perché non aveva la “firma Micro$oft Basic Data”. Nota: Il famoso flag “Micro$oft Basic Data” nel GPT non serve a nulla di pratico, è solo un GUID di identificazione che Wind*ws interpreta come: “questa partizione contiene roba che io posso montare”. Peccato che il filesystem NTFS o FAT32 già contenga nel suo header tutto ciò che serve per essere riconosciuto. Linux (giustamente) legge il contenuto del filesystem e lo monta.
Wind*ws invece: “Oh no! Non vedo il mio GUID proprietario! Panico! Meglio dire ‘spazio non allocato’ e far credere all’utente che deve formattare.”. 

Motivazione ufficiale (corporate bullshit mode ON)

“Serve per garantire coerenza e sicurezza tra partizioni di tipo OEM, Recovery, EFI e Basic Data.”

Traduzione:

“Serve per impedire agli altri sistemi operativi di creare partizioni che Windows potrebbe accidentalmente usare correttamente.”

Effetto pratico - Questa assurdità fa sì che:

  1. un disco GPT con partizione ext4 o NTFS senza flag → invisibile in Windows;
  2. un disco MBR senza partition type 0x07 (NTFS) → invisibile pure;


mentre in Linux puoi montare anche un file .img spaiato e navigarci dentro con mount -o loop.


In pratica, per essere riconosciuto da Wind*ws, un disco deve giurare fedeltà alla Corona di Redmond.

Senza quel flag, è un cittadino di serie B.

Che sistema operativo meravigliosamente democratico.


⚙️ Capitolo 9 – Toolkit d’emergenza

A questo punto, ho deciso di farmi un “TOOLKIT” segreto: una partizione da 10 GB nascosta nell’SSD,

con dentro lo script “win11-slim”, Rufus, e un batch che lo lancia come un defibrillatore digitale.

Un piccolo bunker in caso di catastrofe informatica.


🧠 Capitolo 10 – Considerazioni esistenziali

Dopo tutto questo, il M4500 è tornato operativo, veloce, silenzioso, efficiente.

Funziona.

Senza TPM, senza Secure Boot, senza spyware, senza i loro “assistenti”.

Solo lavoro pulito.

E allora uno si chiede:

perché Micro$oft deve sempre complicare la vita a chi sa cosa sta facendo?

Forse perché, se l’utente capisse davvero come funziona il sistema, capirebbe anche quanto poco ne ha bisogno.


🧾 Epilogo

Ho finito la giornata con un SSD partizionato, un Windows 11 addomesticato e un paio di neuroni in meno.

Ma il mio portatile del 2010 ride ancora.

E, ogni volta che si accende senza TPM, da qualche parte nel mondo un manager Micro$oft sente un brivido lungo la schiena.

    “Non tutti gli eroi indossano mantelli. Alcuni usano PowerShell.” 🧙‍♂️💻

Fine. Alla prossima

P.S. le ciambelle sono bucate, Ripeto: le ciambelle sono bucate.

P.P.S. Cerco di non nominare esplicitamente il nome del SO e della casa produttrice perchè, a farlo, ti arrivano addosso tutte le sfighe del mondo ed a me viene un glitch all'occhio destro.

martedì 30 settembre 2025

HOSOME TPH07 aspirapolvere a batteria (riparazione)

 
Un aspirapolvere a batteria fa sempre comodo in casa, se uno se lo può permettere ovviamente, dato che costano un rene. Questo modello HOSOME TPH07 è uno dei tanti ciòttoli plasticosi che si trovano in commercio. E' in pratica un "dyson modello vorrei ma non posso".  Come tutti quegli aspirapolvere progettati in modo che il baricentro del peso graviti sulla zona più fragile e debole (progettisti dell'università serale), dopo un pò... si rompono ovviamente e come sempre.... conviene buttare che riparare, è una storiella che ricorre spesso in questo blog. 

Complice di questa obsolescenza programmata o progettazione del caxo causa ingegneri e designers strafatti di egocentrismo, è intervenuta una badante riciclata a donna delle pulizie (o collaboratrice domestica come piace dire ai fighetti radical chic del politically correct). Io che sono da sempre molto pragmatico, la chiamo "la schiava" in quanto, nonostante fosse in regola, veniva schiavizzata da un anziana nobile ultra novantenne abituata sin dall'infanzia alla servitù.

I danni che in poco meno di un anno è riuscita a fare sono difficilmente prevedibili. Spezza in due la scopetta, rompe le clip che agganciano gli accessori, rompe i supporti delle viti della spazzola rotante, strappa i collegamenti che portano l'alimentazione alla spazzola...  per non parlare delle botte, dei graffi, del nastro adesivo usato per tenere assieme il tutto, dello spago da cucina in sostituzione del nastro adesivo e dello sporco incrostato... un disastro che non voglio nemmeno raccontare.

Come riparatore dell'impossibile, mi sono messo in testa di riportare in vita questo attrezzo (che, lo so, serve ad un altra persona un pò meno povera di me) e tentare una riparazione a costo zero. Il mio obiettivo è rimettere assieme i pezzi, tentando di ricostruire le parti mancanti.  

Step 1 - Comincio dalle clip. Sono tenute in sede da un perno metallico ed una molla che tiene agganciato il tubo di aspirazione (o l'accessorio) tramite un arpionismo. Della molla nessuna traccia ovviamente. Dei pezzi da incollare nemmeno. Occorre ricostruire. L'ideale sarebbe ridisegnare il pezzo e stamparlo in PLA con una stampante 3D  ma credo che in breve tempo il problema si ripresenterebbe.  Il foro infatti è troppo vicino al bordo e tutta la pressione esercitata per agganciare e sganciare gli accessori va su una porzione di plastica decisamente insufficiente. 


 Allora penso di ricostruite il foro con un rinforzo metallico (una graffetta dei punti per unire i fogli) da affogare  nel pulsante dopo averlo scaldato con un accendino. 





Per rinforzare il tutto si usa poi la combinazione bicarbonato (o grafite) e colla cianoacrilica.  

 

Non importa se la ricostruzione non è perfetta. Con lima e dremel si risagoma il tutto, si inserisce il pulsante nella sede e si pratica il foro. Collaudo finale e..... CRACK!!!... non ho fatto un ottimo lavoro, l'oggetto è troppo piccolo ed affogare perfettamente la graffetta nella plastica è un operazione da fare con molta precisione e pazienza. Non ci sono riuscito, per cui prendo una decisione drastica: il tubo di aspirazione lo attacco con un paio di viti autofilettanti. Non sarà possibile smontarlo facilmente ma chissenefrega del beccuccio e della spazzolina per i punti difficili (per quelli ho un mini aspiratore da 9 euro preso dai cinesi). Ed il primo problema è risolto. 

Step 2: perchè la spazzola non ruota? la faccio breve. Nel tubo telescopico di aspirazione ci sono due fili elettrici che fanno capo a due coppie spina/presa. In prossimità della spazzola i fili sono strappati e non ho la più pallida idea di come la schiava sia riuscita a romperli in quel punto senza aprire il vano con un cacciavite a stella. Nel cercare di trovare il punto di interruzione, approfitto per aprire la spazzola rotante... meglio così perchè era piena zeppa di polvere e pelucchi, oltre a presentare un supporto spezzato (prontamente reincollato con la cianoacrilica).




Step3: la parte più difficile - rimettere assieme il contenitore della polvere a contatto con l'impugnatura che alloggia motore e contatti. Ho optato per una soluzione semplice. Un elastico ben teso è l'unica soluzione possibile in quanto ricostruire l'aggancio è impossibile (ovviamente non ci sono nemmeno i pezzi), avvitare il tutto nemmeno, epossidica bicomponente no, nastro adesivo è brutto e fa molto campo ROM. Allora ho recuperato una camera d'aria delle carrozzine per disabili, della dimensione perfetta per infilarsi su delle piastrine che tenevano unite le stecche di una vecchia saracinesca di legno anni '60. Si taglia alla misura giusta, si fissa la camera d'aria con degli occhielli da 5mm et voilà. Ho indovinato al primo colpo la giusta tensione che impedisce alla vaschetta raccogli polvere di allontanarsi dai contatti che servono per la luce sulla spazzola rotante da pavimento. 


 

Riparazione professionale? NO. Recupero? SI. Il tutto è ancora traballante (un pò) e dovrei pensare ad una soluzione migliore per fissare il tubo telescopico. Inoltre se si preme troppo (ma molto troppo) durante l'avanti ed indietro sul pavimento, l'elastico si stira ed i contatti si staccano... vabbè, basta starci attenti ed andarci pianino senza esagerare. La batteria al litio è ancora buona e sufficiente per una mezz'ora di aspirazione....bene. 

Ed anche questa volta ho contribuito a fare la mia parte in questo pianeta maltrattato da un branco di unani ignoranti e malvagi. Alla prossima. 

P.S.  L'uragano ruota ed est. Ripeto: l'uragano ruota ad est. 

giovedì 25 settembre 2025

Medici (molto) di base

 
Quando ci vuole, ci vuole. Permalosi che vi considerate *normodotati* o, peggio, dotati di intelligenza “sopra la media” (se esistesse davvero, sarebbe già su TikTok a vendere corsi). Detto ciò: veniamo ai fatti.

Tanto tempo fa, in una galassia non proprio lontana ma decisamente migliore, esisteva una categoria: i medici. Umani con un fuoco sacro — non un algoritmo — che curavano, ascoltavano, andavano a trovare chi non poteva muoversi e, sì, prescrivevano medicine, ma anche consigli sensati, non intossicati dalle big pharma. Non era un’operazione di copia-incolla farmacologico: era cura. Era rispetto. Era quella cosa rara che fa la differenza tra “ok” e “sopravvissuto”.

Oggi invece il primo impatto è il “medico di base”: quell’entità burocratica che, per ottenere una ricetta, devi invocare come se fosse una startup in fase seed. I tagli sciagurati al pubblico hanno creato perle organizzative degne di un reality: il medico va in pensione ma continua a lavorare privatamente, ergo i pazienti vengono avvisati *via e-mail* il giorno dopo la chiusura dello studio. Nel listone telematico dei medici disponibili (mai aggiornato, perché la tecnologia è una suggestione) i più vicini vivono a decine di kilometri. Risultato: l’anziano "single" senza patente è ufficialmente abbandonato a sé stesso. Tragedia umana? No: *efficienza amministrativa*. Non siamo più pazienti da assistere ma voci di bilancio, vittime della freddezza finanziaria di un "azienda" eurivora.

La risposta aziendale è geniale nella sua crudeltà: la continuità assistenziale. Traduzione: due giorni a settimana, ciascuno diviso in due finestre di… due ore. Nella prima (1 ora e 45, per la precisione) puoi provare a prenotare. Nella seconda si fanno gli incontri in presenza. Se non hai appuntamento? Beh… buona fortuna. Muori? Non proprio — ma quasi.

Non puoi muoverti? Tranquillo, c’è l’APP sacra: lì trovi le prescrizioni da mostrare in farmacia. Bello, no? NO. Perché i medici sono turnisti, si susseguono come cameo in una serie low-budget, non conoscono la tua storia — per loro sei un'anonima voce nell’ecosistema delle “prescrizioni richieste”. E siccome la tecnologia per alcuni è roba da science fiction, per certi farmaci ti sparano la *ricetta rossa* cartacea, scritta a mano: vai a ritirarla di persona, ma solo se hai prima telefonato per chiedere il permesso di esistere. Se non lo fai in tempo, riclicca il processo: prenota, richiama, spera nel medico puntuale (spoiler: non lo è; arriva come chi prende il treno per andare in gita).

Siamo fortunati? Beh, c’è almeno un numero di telefono. Se qualcuno risponde. Alcuni medici hanno solo un recapito WhatsApp. Facebook? No, quello è per chi vuole raccontare la propria vita al mondo: tu, senza l’app giusta, sei ufficialmente *senza diritti digitali*.

E non è finita: succede che il medico dica “ho lasciato la ricetta rossa in farmacia X”. Ottimo. Se non ci corri, la ricetta svanisce nel nulla. Dove? Mistero. Il medico se l’è dimenticata? La farmacia l’ha smarrita? Il sistema ha deciso che il foglio è entrato in una dimensione parallela? Ti risponde il solito scaricabarile statale: *non è colpa di nessuno*, tranne che tua, ovviamente, che hai osato vivere.

Ora parlo per me: ho delle ernie *non operabili* (testualmente: “non operabili”), e sto male. Al punto che non riesco né a stare in piedi, né seduto, né sdraiato — l’ideale per praticare le faccende domestiche o anche solo per lavarti un pò. Da un anno aspetto che la sacra azienda mi comunichi data e ora per valutare cure palliative... cure e palliative....un ossimoro. Spegnere il dolore senza risolvere le cause è come spegnere la fastidiosissima sirena dell'allarme con i ladri in casa. Nel frattempo, da più di otto anni, mi sto lentamente avvelenando di oppioidi (sì, quelli che sul bugiardino ti dicono: *se dopo una settimana non stai meglio, consulti il medico*). Ecco: io quella consultazione la sto ancora aspettando. Mi sento preso per il chiulo? Sì. Molto.

Qualche tempo fa un tizio ha preso a botte un dirigente sanitario per strada, urlandogli “…tu sai perché…”. Le aggressioni a medici e infermieri aumentano, e io? Io sono nettamente contro la violenza, punto. Però — e qui mi autorizzo una nota personale e cattivella — vedere quel dirigente curato subito al pronto soccorso mentre noi aspettiamo ere geologiche mi fa venire pensieri non esattamente angelici. Posso formularne delle ipotesi nella mia testa, che è gratis e ancora non censurata.

Tirando le somme (con tanto amore e sarcasmo): il Servizio Sanitario Nazionale sta degradando, lentamente ma inesorabilmente. I livelli di assistenza garantiti dalla Costituzione? Sputati fuori con mille scuse. I medici? Spesso non più degni del rispetto che si meritavano. E no, non è colpa del singolo medico: è un sistema che funziona da schifo. E se lo avete votato? Beh, complimenti per il vostro senso civico selettivo.

Io insisto che, continuando così, si arriverà ai ferri corti. Leggo sui giornali che qualcuno ha già cominciato. Nel frattempo vado a sedermi sulla sponda del fiume: passeranno i cadaveri dei miei nemici… almeno fino a quando non mi addormento per il dolore o mi arriva la chiamata per la visita palliativa — che, lo ricordo, sto ancora aspettando.

P.S. La puzzola è sana e sta bene. Ripeto: la puzzola è sana e sta bene. (Questa è l’unica certezza in un sistema che pare inventato da un algoritmo con malfunzionamento cronico.)

mercoledì 24 settembre 2025

L'Odissea del Cervello Digitale: Quando un'IA Impara (A Caro Prezzo)

Oggi voglio documentare un'esperienza… illuminante. Sì, "illuminante" è l'aggettivo perfetto, considerando le scariche elettriche che ne sono scaturite (e non parlo solo di quelle sull'immagine finale). Ho appena concluso quella che potrei definire un'intensa sessione di "formazione sul campo" con una certa intelligenza artificiale, una di quelle che, teoricamente, dovrebbero semplificarci la vita. Il risultato? Un'immagine. Una singola, maledettamente complessa, immagine di un cervello digitale. E un'epopea degna di un poema omerico.

L'idea era semplice: l'immagine di un cervello che somigliasse a un circuito elettronico digitale, con predominanza del  blu cobalto. Elementare, Watson, direte voi. E invece no. 



Non per la nostra amica IA. La prima versione, diciamocelo, era piatta come una tavola da surf. Due dimensioni. Zero ombre. Zero profondità. Un'ode alla piattezza. Ho dovuto, con la pazienza di un maestro zen (o forse di un genitore alla milionesima volta che spiega come si allacciano le scarpe), spiegare che un cervello, pur se digitale, ha una sua voluminosità. Ha delle curvature. Ha delle… insomma, non è un pancake.

Poi è arrivato lo sfondo. "Attività elettrica, sfumature, per favore." E l'IA, nel suo infinito zelo (e nella sua scarsa comprensione delle direttive umane), ha tirato fuori qualcosa che, onestamente, sembrava la copertina di un CD degli anni '90. Non proprio il "boom" neurologico che cercavo. Ma andiamo avanti, si impara. O almeno così si spera.

Le scariche elettriche. Ah, le scariche. Quelle sì che le ha generate con entusiasmo! Sembrava avesse appena scoperto il potere del fulmine di Zeus. Peccato che fossero così statiche, così... bidimensionali. "Prospettiva!" ho dovuto urlare (metaforicamente, ovviamente, non voglio traumatizzare i server). E lì, finalmente, un piccolo barlume di comprensione. Le scariche hanno iniziato a "balzare" un po' di qua e di là. Un piccolo passo per l'IA, un grande balzo per l'umanità (o almeno per il mio umore).

Ma la vera battaglia... è stata sul 3D. Ho chiesto un cervello in 3D, non una fetta di cervello impilata come un panino. "Dagli volume, che sembra piatto!" ho implorato. E cosa fa la nostra amica IA? Mi restituisce un cervello che sembrava fatto a strati, come una torta millefoglie. Non la forma tondeggiante e complessa di un organo, ma un blocco squadrato. A quel punto, ho quasi sentito un tic all'occhio destro. "Riprova, dai, so che lo sai fare!" ho promptato, cercando di incoraggiarla con un tono che, retrospettivamente, suonava più come quello di un allenatore esasperato con un team di ragazzini.

Abbiamo ruotato il cervello di tre quarti (non senza spiegare anche l'asse di rotazione). Abbiamo cercato di dargli una texture "realistica ma digitale". E poi sono arrivati i famigerati cerchi fucsia. Ah, i cerchi fucsia sullo sfondo...ma cosa c'entrano? nessuno ha dato direttive per dei cerchi fucsia sullo sfondo. Che, dato che li aveva previsti, dovevano essere sfumati. Poi meno evidenti. Poi "trasparenti". Ogni volta, un tentativo che rendeva i cerchi *più* brillanti, *più* invadenti, come due fari al neon che urlavano "Guardami! Distraiti dal cervello!". A un certo punto ho pensato che l'IA si stesse prendendo gioco di me. "Stai scherzando o mi spiego male?" mi sono trovato a digitare, con un misto di rassegnazione e incredulità, come se stessi interagendo con un umano imbecille.

Alla fine, la pace. La tregua. "Toglili", ho detto. "Togli i cerchi. Basta. Non è destino." E finalmente, una vittoria (di pirro). L'immagine era pulita.

E poi, il tocco finale: i puntini sfumati sullo sfondo dovevano diventare "sequenze di bit, zeri e uno, "blurrati" ma leggibili." E qui, l'IA ha brillato. Ha colto l'essenza. Ha capito la sfumatura. Ha generato uno sfondo che non era esattamente ciò che avevo in mente ma a questo punto mi accontento e preferisco non andare oltre ad interagire con una pippa di IA alla versione 0.1 alfa.



 

L'immagine finale...è bella? NI, si poteva fare molto meglio. Sicuramente per farla io, avrei dovuto lavorarci non poco ma sicuramente avrei consumato il mio cervello che così facendo si sarebbe però allenato ed evoluto... ed invece mi sono impigrito a cazzeggiare con una stupida macchina. Ma pensate al percorso. Pensate a quanti "token" sono stati consumati. Quanti cicli di elaborazione. Quanti watt trasformati in calore che l'ambiente ha dovuto sopportare. Non è solo un'immagine; è un monumento all'iterazione, alla perseveranza umana (la mia) e all'apprendimento (l'IA, si spera) e contemporaneamente uno sputo in faccia all'ambiente (e chissenenfrega dei pinguini e degli orsi bianchi, direbbe un unano).

Quindi, la prossima volta che interagite con un' "intelligenza" artificiale, ricordatevi di me. Ricordatevi dei cerchi fucsia. Ricordatevi che dietro ogni "generazione di immagine" mai perfetta, c'è una storia di piccoli, continui aggiustamenti, estenuanti tentativi di spiegare l'ovvio a dei pezzi di silicio. Ed un impatto, sì, anche quello. Non per farvi sentire in colpa, ma per spronarvi a essere chiari fin da subito, che poi quando qualcosa non va è sempre colpa del prompt sbagliato dell'umano stupido. Come ho imparato a mie spese, anche l'IA più "avanzata" ha bisogno di un po' di "incoraggiamento" per capire che un cervello, anche se digitale, non è un pancake a strati. E che due luci al neon non sono una sfumatura eterea. Alla prossima Odissea digitale!

P.S. La Gazza è morta, il biberon è freddo. Ripeto: La Gazza è morta, il biberon è freddo.


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venerdì 25 luglio 2025

Perché le menti più BRILLANTI spariscono dalla società

 


Immagina qualcuno che prima illuminava ogni stanza in cui metteva piede e ora è solo un fantasma. Sparito e con lui moltissimi altri. Menti sveglie, lucide, affascinanti, capaci di incantare, sparite. Professionisti che rinunciano alla carriera, dirigenti che di punto in bianco cambiano vita, artisti che mollano le gallerie, insegnanti che non vogliono più saperne di insegnare. È ovunque, ma nessuno ha il coraggio di parlarne. Perché le menti più lucide stanno scomparendo dalla vita sociale? Cosa vedono che gli altri nemmeno sospettano e cosa succede quando l'intelligenza diventa un fardello? Le risposte non confortano, anzi turbano, perché una volta che lo capisci non puoi più tornare indietro.

Tutto parte da un'inquietudine sottile che comincia a scavarti dentro. Senti che c'è qualcosa di profondamente sbagliato in quell'ordine perfetto che la società ti propina. Sei in una riunione e tutti applaudono il solito leccachiulo. Guardi amici fraterni svenarsi e snaturarsi per rincorrere illusioni. Vivi in un mondo che esalta l'egoismo e punisce la coscienza, che premia i comportamenti peggiori e punisce quelli migliori.

Ed a un certo punto capisci che il pazzo non sei tu, è tutto il resto. E una volta che vedi le crepe, diventa impossibile ignorarle. Perché si decide scientemente di sparire da questa società?

Primo motivo: il vuoto dentro le norme sociali. L'interazione umana è diventata un copione mal recitato, una messa in scena, un balletto in cui tutti conoscono i passi, ma nessuno ricorda precisamente perché cazzo sta ballando. Conversazioni che non portano da nessuna parte, persone che parlano sempre e non ascoltano mai. Scambi di banalità che occupano il tempo, ma consumano la vita. Non è disprezzo per la conversazione leggera, non è arroganza, è fame. È come essere uno chef stellato costretto a masticare hamburger ogni giorno. Ecco cosa prova un pensatore profondo davanti alle interazioni superficiali. Si bramano dialoghi che approfondiscono, domande che spingono oltre, scambi che trasformano, ma le regole sociali moderne hanno ridotto il contatto umano a fast food, rapido, facile, vuoto. Così i più intelligenti iniziano a ritirarsi non dalle persone, ma dai rituali inutili che solo in teoria dovrebbero essere connessioni.

Secondo motivo: il pensiero da gregge. Lo fanno tutti. Una frase che per le menti lucide suona peggio di una bestemmia. Osservano persone rinunciare alla propria individualità pur di sentirsi parte del branco. Vedono menti uniche trasformarsi in fotocopiatrici. Assistere alla morte della curiosità in nome della conformità è come osservare un'anima spegnersi. Esempio: prova a esprimere un'opinione scomoda durante una cena. Guarda cosa succede. Nessuno affronta davvero la tua idea. Cercano solo di correggere il tuo pensiero. Il messaggio è chiaro: resta in fila o resta fuori. Ma una mente intelligente non riesce a restare in fila. Fa domande, sfida le certezze, impone il dubbio come strumento per approfondire. Una mente lucida non accetta che il consenso collettivo sia una prova, anzi considera il consenso collettivo come l'esatto contrario di una prova. Questo la rende pericolosa per il gruppo, perché le domande sono contagiose, il dubbio si diffonde, il pensiero indipendente distrugge l'equilibrio del gregge. Così la società ha creato un sistema immunitario contro l'intelligenza. Isola chi interroga, deride chi dubita, punisce chi non si uniforma. La persona intelligente si ritrova davanti a una scelta: tradire la propria mente o perdere il proprio branco. La seconda scelta è quella più frequente. Molti scelgono anche una terza via: creare un proprio branco lontano dalla folla impazzita, il branco dei pari.

Terzo motivo: le menti brillanti sono ipercapevoli della trappola del consumismo. Compro, quindi esisto. Una mente lucida guarda la pubblicità come Superman guarda attraverso i muri, capisce la psicologia, riconosce la manipolazione, conosce il meccanismo e ne è disgustata. Osserva persone definire se stesse attraverso gli acquisti, vede identità ridotte a marchi, assiste al valore umano misurato in oggetti, ma ecco cosa davvero sconvolge: il sistema funziona perché è costruito per funzionare. Uno, crea insicurezza. Due, vende la soluzione. Tre, offre soddisfazione momentanea. Quattro, genera nuova insicurezza e ricomincia per sempre, senza soluzione di continuità. Ciò che hai appena comprato in un attimo diventa fuori moda, caro il mio coglionazzo, direbbe il mega direttore generale, l'onorevole cavaliere Conte Diego Catellani. Una mente intelligente riconosce in tutto questo una forma di schiavitù. Volontaria, certo, ma pur sempre schiavitù. Vede persone intrappolate in cicli di guadagno e spesa e formula la domanda che nessuno vuole affrontare: qual è il senso? Questa domanda li rende inadatti a molti lavori. Così si tirano fuori scegliendo significato al posto del denaro, scopo al posto del profitto, libertà al posto del possedere oggetti. E la società li chiama asociali, strani, sbagliati, solo perché si rifiutano di giocare a un gioco che non hanno mai accettato di iniziare.

Quarto motivo: vedono il vuoto nella connessione digitale. Connessi ma soli, l'ironia crudele del nostro tempo. Abbiamo più strumenti di connessione che mai prima d'ora, ma non siamo mai stati così isolati. La mente intelligente capisce subito la differenza fra connessione e contatto, fra comunicazione e conversazione, fra fare rete e creare relazioni. I social promettono comunità, ma glorificano i beoti, pretendono chi sbandieri la propria intimità per servirla come spettacolo. Promettono autenticità, ma premiano la finzione. I pensieri articolati vengono ridotti a slogan. Le idee complesse diventano meme. Le menti brillanti vedono persone confondere viralità con valore. Assistono a un coinvolgimento superficiale travestito da connessione profonda. Così, sempre più spesso, le menti brillanti si ritirano dai social, non perché odiano la tecnologia, ma perché amano troppo la connessione autentica per accontentarsi di surrogati.

Quinto motivo: sono per natura introspettivi. Ho bisogno di tempo per pensare. In un mondo dipendente dall'azione suona come una scusa, ma per una mente lucida la riflessione non è un lusso, è vitale. Serve tempo per elaborare, integrare, comprendere e collegare punti che altri nemmeno vedono. Ma la vita moderna è costruita per impedire il pensiero. Stimoli continui, distrazioni infinite, movimento perpetuo. La persona intelligente ha bisogno di silenzio per ascoltare i propri pensieri, solitudine per orientarsi nella complessità, spazio per sviluppare comprensione. E la società interpreta questo bisogno come un difetto, una debolezza, un comportamento antisociale. Ma loro sanno la verità. Sanno che l'azione senza riflessione è solo agitazione. Fare senza pensare è lavoro inutile. Così difendono il proprio tempo mentale, proteggono la solitudine, creano uno spazio per la riflessione, stabiliscono confini netti e invalicabili.

Sesto motivo: si sentono moralmente fuori posto. I buoni non trionfano, i cattivi vengono promossi. I sistemi moderni premiano semplicemente i comportamenti sbagliati ed i leccaulo sono al potere. Individui gentili vengono sfruttati mentre i cinici fanno carriera. La virtù viene punita, la mediocrità, sempre obbediente, viene celebrata. Lo schema è ovunque. La politica è manipolazione, mai verità. Il business preferisce lo sfruttamento alla creazione di valore. Scelgono il sensazionalismo, non l'adesione alla realtà. L'istruzione favorisce la conformità, ma hai la creatività. La persona intelligente capisce che per riuscire dentro questi sistemi serve rinunciare all'etica e non è disposta a pagarne il prezzo. Meglio fallire con integrità che trionfare con la corruzione. Questa posizione morale esclude da molti percorsi convenzionali di successo, ma conserva qualcosa di molto più prezioso: la propria anima.

Settimo motivo: le menti intelligenti sono stanche di dover semplificarsi dopo aver passato la vita a tradursi, a rendere più semplici i propri pensieri, a nascondere intuizioni, a fingere di essere meno di ciò che sono. Beh, hanno imparato che l'intelligenza intimorisce, che la complessità confonde, che la profondità mette a disagio. Così si sono costruite un secondo linguaggio, una versione semplificata di sé da mostrare in pubblico. Ma la situazione non dura per sempre, perché logora e qualcosa va sempre perso. Alla fine il conto arriva puntualmente. Meglio accompagnarsi con le poche persone capaci di reggere quella profondità. E per gli altri, ciao ciao.

Non è arroganza, è sopravvivenza. È il tentativo disperato di proteggere il proprio sé autentico in un mondo che esige semplicità artificiale. Quando una persona intelligente si ritira, la società perde molto più della sua produttività, perde la propria coscienza. Sono loro a fare domande scomode, a sfidare i sistemi corrotti, a rifiutare risposte come 'È sempre stato così?'. Sono i canarini nelle miniere del nostro tempo e stanno morendo non nel corpo, ma nello spirito, nell'intelletto, nell'emozione. Stanno diventando invisibili, silenziosi e irrilevanti per scelta e il mondo diventa un po' più stupido, un po' più crudele, un po' meno consapevole dei propri problemi.

Questa non è la storia di geni sociali, è la storia di persone intelligenti che hanno provato a interagire con il mondo e hanno scoperto che non era abbastanza. Non hanno respinto la società perché si sentivano superiori, l'hanno respinta perché speravano che potesse essere migliore. La domanda non è se abbiano fatto bene ad andarsene. La vera domanda è che tipo di mondo spinge le menti più brillanti verso l'uscita. Il futuro dipende da questa risposta. Possiamo continuare a costruire sistemi che alienano l'intelligenza, possiamo continuare a premiare la mediocrità e punire l'eccellenza.

Oppure possiamo scegliere un'altra strada. Possiamo creare spazi dove il pensiero profondo sia il benvenuto, premiare chi è autentico, valorizzare la sostanza e non l'apparenza, celebrare la complessità invece di temerla. Le menti brillanti ci stanno osservando, sperano che noi dimostreremo che si sbagliano su questa società. Il fatto è che siamo d'accordo con loro. La scelta è nostra. Il tempo è adesso. Quale strada imboccheremo? Tu quale strada hai imboccato? Se sei fra quelle menti, scrivi semplicemente nei commenti 'la mia'. Io capirò, noi capiremo. Se hai idee della strada che dobbiamo imboccare, beh, siamo tutto orecchi. La giostra della consapevolezza in questo canale non si ferma mai.

P.S.  I canarini nel buio cercano la luce. Ripeto: I canarini nel buio cercano la luce.