giovedì 27 novembre 2025

Bèpi Sugamàn e l’Inteigensa Artificiàe

 


In questi anni ho conosciuto un nuovo animale mitologico del panorama imprenditoriale italiano: il Bèpi Sugamàn Digitale. È una creatura affascinante, un misto tra spaccone di periferia e guru dell’innovazione immaginaria. Si avvicina a te — consulente, tecnico, professionista — con l’aria di chi sta per rivelarti il segreto dell’universo, poi apre bocca e parte la fiera del nonsense.

L’esordio è sempre questo: “Mi serve l’inteigènsa artifiçiàe. La ghe vol. Oh, la xè el futuro.” In quel momento capisci che non c’è speranza. Hai davanti uno che non distingue un file PDF da una grattugia, ma vuole l’AI “perché lo dice Internet” (o suo cugino ragioniere).

Come riconoscere un Bèpi Sugamàn digitale

Facile. Ha una serie di caratteristiche inconfondibili:

  • Dice “voglio l’AI” con lo stesso tono con cui ordinerebbe una pizza capricciosa.
  • Usa WhatsApp per tutto, anche per mandarti file che sarebbe illegale far vedere persino al parroco.
  • Ha un gestionale scritto nel 1998 da suo cognato e pretende che “si colleghi all’AI”.
  • Ha paura del cloud ma manda contratti via screenshot.
  • Paga sempre in ritardo, ma “spende volentieri se il lavoro è fatto bene”, cioè mai.
  • Vuole decidere le strategie tecniche perché “lui è il titolare”.

E soprattutto, la sua frase preferita:

“Mi so cossa serve. Te basta che me fassi el programìn.”

Il programìn. Oggetto leggendario, tipo il Sacro Graal. Non si sa cosa sia, non si sa cosa faccia, ma lui è certo che esiste.

Perché NON lavoro con questa gente

Io non faccio miracoli. Non faccio magia nera. Non sono un domatore di incompetenze.

Io progetto, analizzo, pianifico, integro. E quando serve, dico dei “no” lunghi come la tangenziale di Mestre.

Perché il bèpi sugamàn:

  • non ascolta;
  • non capisce;
  • ma soprattutto non vuole capire.

Lui vuole l’AI come status symbol: per sentirsi moderno, per far colpo sulla moglie, per poter dire al bar “go messo l' inteigensa artifiiciae nel capanòn”.

A questi soggetti ricordo sempre un dettaglio importante: l’intelligenza artificiale non compensa la stupidità naturale.

Sillogismo

Premessa 1: Se non ascolti il tecnico, fai danni.
Premessa 2: Il bèpi non ascolta.
Conclusione: Il bèpi è un progetto di bonifica, non di consulenza.

Il cliente ideale (per me)

Io lavoro con persone che hanno tre qualità:

  • umiltà professionale;
  • fiducia nell’esperto che pagano;
  • capacità di non dire stupidaggini mentre io progetto.

Perché se vieni da me a dirmi cosa devo fare, come devo farlo e quanto ci devo mettere, un dubbio mi viene: se sei così bravo, perché non te lo fai da solo?

Io non sono un muratore digitale, non vengo a tirarti su i muretti delle tue idee sbagliate. Io progetto case, non rattoppo pollai.

La parabola del SUV e del trattore

Il bèpi vuole l’AI come chi compra un SUV da 200.000 euro per fare due rotonde. Poi però si infila in una stradina di campagna, si impantana e dice che è colpa della macchina.

La verità è semplice: se non sai guidare un trattore, non puoi pretendere di pilotare un jet.

Ma prova a spiegarglielo: ti risponde che “lui ha esperienza”. Certo: esperienza nel complicarsi la vita.

Conclusione: il test del fegato

Se dopo aver letto questo articolo ti sei divertito, probabilmente sei un tecnico, o un imprenditore intelligente. Se ti sei irritato, rivediamo insieme il sillogismo: forse fai parte del problema, non della soluzione.

Io lavoro con chi vuole crescere, non con chi vuole comandare senza capire. Se cerchi un consulente che ti dica sempre sì, non sono io. Se cerchi uno che ti dica la verità, anche quando fa male, allora sì: parliamone.

Meglio pochi clienti, ma intelligenti. L’intelligenza artificiale è potente, ma quella naturale — quando c’è — vale molto di più. 

P.S. latte uova e farina sbattute assieme non fanno una torta. Ripeto:  latte uova e farina sbattute assieme non fanno una torta.

giovedì 20 novembre 2025

Il dolore è reale, la sanità un po’ meno

 


Ci sono momenti in cui ti accorgi che stai invecchiando non dal compleanno, ma dal fatto che per alzarti dal letto devi contrattare con le tue vertebre come con un sindacato ostile.

Hai male. Male serio. Ti affidi al Sistema™. E lì scopri che il dolore è una cosa tua, personale, intima.
Il resto è burocrazia, marketing e appuntamenti “quando non servirà più”.

Benvenuti nel Paese dove la terapia del dolore è considerata un hobby.


Il medico di base: entità mitologica di cui si narrano leggende

Sulla carta esiste il “medico di medicina generale”.
Nella pratica, spesso è:

  • irreperibile,

  • sovraccarico,

  • in pensione con la firma ancora sulla porta,

  • oppure semplicemente un nome in un elenco che nessuno aggiorna.

Tu intanto hai dolore vero, non quello da bugiardino.

Vorresti qualcuno che ti conosca, che abbia letto almeno una volta la tua storia clinica.
Invece la realtà è questa: “Se vuole essere visitato, si rivolga a chi capita, prenda un numerino virtuale e speri che non vada via il server”.


Il CUP: Centro Unico Per farti passare la voglia

La terapia antalgica viene prescritta dallo specialista ospedaliero.
Che, di solito, riceve:

  • su appuntamento,

  • da prenotare tramite CUP,

  • con tempistica compresa fra “mesi” e “quando ormai avrai fatto pace col destino”.

Il CUP è un capolavoro di ingegneria sociale:

  • se sopravvivi abbastanza a lungo da arrivare alla visita, vuol dire che forse non stavi così male;

  • se rinunci prima, il sistema ha funzionato: un paziente in meno, un problema in meno.

Nel frattempo, tu ti arrangi.
Perché il dolore non aspetta il turno allo sportello.


La terapia del dolore: lusso da boutique

Poi c’è la parte più gustosa: il trattamento.

Ti propongono un ciclo di iniezioni.
Magari non è neanche un farmaco “pesante”, magari è solo:

“Un integratore, sa, fa bene, costa un po’ ma la qualità si paga…”

Sessanta euro la scatola.
Di integratore.
In fiala.
Da iniettare nel gluteo.

Cioè: ti fanno fare il cosplay dell’eroina iniettiva, ma versione legale e costosa.

La scena è questa:

  • hai 60+ anni,

  • chiappe che hanno visto tempi migliori,

  • dolori che non ti fanno dormire,

  • e ti ritrovi con in mano una scatola di vetriolo “wellness” da 60 euro, venduta come se fosse un upgrade alla tua esistenza.

Se poi ti azzardi a dire che forse la seconda scatola, da altri 60 euro, anche no…
ti guardano come se stessi sabotando il miracolo della medicina moderna.


Gli aguzzini sorridenti: il giro dell’ago (e del contante)

In teoria potresti:

  • andare da un infermiere,

  • o in farmacia con servizio infermieristico.

In pratica spesso la musica è questa:

  • “Facciamo in fretta, così non compiliamo troppe carte.”

  • “Vuole la ricevuta? Ah, ehm, allora cambia il prezzo…”

  • “Facciamo che è un favore, eh?”

E tu lì, tra imbarazzo e necessità, con l’ago in mano e il portafoglio aperto.
Il tutto in un sistema che, sulla carta, si riempie la bocca di parole tipo:

“presa in carico del paziente”,
“centralità della persona”,
“appropriatezza delle cure”.

Centralità della persona, sì: centrale il tuo conto corrente, il resto è contorno.


Autogestione eroica: medicina DIY edition

Alla fine ti ritrovi da solo, letteralmente.
Con una scatola di fiale, qualche ago, un dolore che ti sega le gambe e zero accesso reale a un percorso sensato.

E allora scatta la modalità medicina di trincea:

  • ti informi come puoi (quando non ti trattano da criminale per il solo fatto di voler capire cosa ti fanno);

  • ti arrangi con ciò che hai;

  • fai un paio di conti:

    • rischio del dolore non trattato,

    • rischio del “fai da te” (forare lo sciatico o l'arteria femorale),

    • rischio di bruciare centinaia di euro in integratori.

E alla fine, spesso, scegli la soluzione meno irrazionale tra quelle tutte sbagliate.

Non è che non ti fidi della scienza.
È che la scienza non coincide con la filiera di vendita che ti ritrovi davanti.


Sessanta euro risparmiati, dignità salvata (più o meno)

A un certo punto dici basta:

  • una scatola l’hai fatta,

  • la seconda no,

  • il rischio farmacologico è ridicolo rispetto al circo che ti chiedono di alimentare,

  • e decidi che la roulette russa delle punture di “benessere” può pure finire qui.

Ti tieni il tuo dolore, gestito come puoi, ma almeno non finanzi oltre il teatro dell’assurdo.

Sessanta euro risparmiati non ti tolgono il male, ma tolgono almeno la sensazione di essere complice del gioco.


Conclusione: il dolore è un fatto, il rispetto dovrebbe esserlo

Il dolore cronico non è psicologia, non è debolezza, non è “eh ma alla sua età…”.
È un problema reale, misurabile, che ti trasforma la giornata e la testa.

Quello che manca, troppo spesso, non sono le molecole, ma il rispetto:

  • rispetto del tempo del paziente,

  • rispetto della sua intelligenza,

  • rispetto del suo portafoglio,

  • rispetto del fatto che non tutti possono vivere in funzione degli orari di un CUP progettato per scoraggiare.

Si riempiono la bocca con “diritto alla salute”.
In pratica, spesso, il messaggio è un altro:

“Hai diritto a soffrire in coda, in silenzio, e possibilmente pagando extra se non vuoi aspettare.”

Il dolore è reale.
La sanità, certe volte, sembra ancora in versione beta privata. Alla prossima.

P.S.  Meglio un culo gelato che un gelato in culo. Ripeto:  Meglio un culo gelato che un gelato in culo.

giovedì 13 novembre 2025

Quando Debian cresce ed Apache fa i capricci

Cronache di un vecchio sistemista che non si fa fregare da PHP. 


 

C’è un momento, nella vita di ogni vecchio sistemista, in cui senti quella vocina interiore che sussurra: «È uscito Debian nuovo… che fai, aggiorni?»

E tu, invece di ascoltare l’istinto di sopravvivenza, aggiorni.

Finché, ovviamente, non arriva lui:
apache2.service: FAILED
e il tuo server di fiducia ti guarda in silenzio come un gatto offeso.

Primo atto: Apache muore, ma con stile

Scenario: server Debian 13 nuovo di zecca dopo upgrade. Apache non parte, journalctl ti spara in faccia qualcosa del tipo:

Syntax error su una riga di apache2.conf, e poi:

Syntax error on line 3 of /etc/apache2/mods-enabled/php8.2.load:
Cannot load /usr/lib/apache2/modules/libphp8.2.so into server: ...


Traduzione per umani:
- Apache di suo è tranquillo.
- È PHP 8.2 che è rimasto appeso come un ex che non capisce di essere stato lasciato.
- Il file libphp8.2.so non c’è più, ma la configurazione prova ancora a caricarlo.

Apache, giustamente, si rifiuta di partire con mezzo arto fantasma attaccato.

Il sistemista giovane a questo punto formatta il server o dà la colpa a systemd.
Il sistemista navigato invece fa una cosa molto blasfema ma efficace:

apachectl -t

legge l’errore con calma, individua il colpevole (php8.2.load) e lo spegne:

a2dismod php8.2
apachectl -t
systemctl restart apache2


E Apache torna a respirare. Senza PHP, ma respira.

Come quando riaccendi un vecchio server rimuovendo a mano la scheda SCSI di cui nessuno si ricordava.

Secondo atto: il 403 che ti guarda giudicante

Risolto il crash, arriva il passivo-aggressivo di Apache:

403 Forbidden – You don’t have permission to access this resource.

E tu pensi: «Ma se ha SEMPRE funzionato, perché ora no?»

Classico mantra del sysadmin: “ma non ho toccato niente” (tranne un major upgrade, tre moduli e mezza distro nuova, dettagli).

Qui entra in gioco il lato artigiano di bottega del sistemista.

- DocumentRoot del sito di test, per esempio: /home/utente/www/sito.local
- In apache2.conf c’è un blocco tipo:

<Directory /home/utente/www/>
    Options Indexes FollowSymLinks
    AllowOverride None
    Require all granted
</Directory>

Sulla carta è tutto giusto. Nella pratica, Apache gira come utente www-data e, se la home è un bunker tipo:

drwx------  /home/utente

allora www-data non entra. Non per cattiveria: manca la “x” sul percorso, e senza execute sulle directory, nel mondo Unix non passi.

Quindi, con mano ferma (non in modalità “chmod 777 a pioggia”, quello è peccato mortale) si fa:

chmod 711 /home/utente
chmod 755 /home/utente/www
chmod 755 /home/utente/www/sito.local


- 711 sulla home: nessuno vede i file, ma Apache può attraversare la directory.
- 755 sul webroot: la vecchia scuola, onesta e prevedibile.

Risultato: il 403 sparisce.
Il sistemista sorride.
Per 5 secondi.

Terzo atto: il PHP che invece di girare… si scarica

Appena pensi “ok, è fatta”, apri il sito e il browser ti chiede candidamente:

“Vuoi aprire o salvare un file di tipo application/x-httpd-php?”

Ed è lì che un brivido ti scende lungo la schiena. Quando il browser ti propone di scaricare un file .php, vuol dire una cosa semplice:

“Il server non lo sta più eseguendo. Te lo sta dando paro paro.”

Apache è vivo, ma nessun modulo PHP è attivo. È come avere il forno acceso senza la resistenza: luce c’è, calore zero.

Un occhio a mods-available e mods-enabled:

ls /etc/apache2/mods-available/php*
# php8.2.conf, php8.2.load, php8.4.conf, php8.4.load (per esempio)

ls /etc/apache2/mods-enabled/php*
# (vuoto)

La nuova Debian, nel frattempo, ha fatto il salto generazionale:
- sul sistema c’è libapache2-mod-php8.4,
- il PHP CLI è 8.4,
- ma Apache… non lo sa ancora.

E qui entra in scena l’esperienza.

Il pivello scriverebbe:

a2enmod php

e si offenderebbe per l’errore:
ERROR: Module php does not exist!

Il sistemista navigato guarda i nomi dei file e dice: “Ok, tu vuoi il nome esatto del modulo, non le astrazioni filosofiche.”

Quindi:

a2enmod php8.4
apachectl -t
systemctl restart apache2


E, come un vecchio televisore a valvole preso a schiaffi sul lato giusto, PHP riprende a funzionare.

Quarto atto: archeologia digitale, ovvero “purga gli ex”

A questo punto PHP 8.4 gira, Apache è felice, il sito risponde. Nel sistema però sono rimasti i fossili di PHP 8.2 in stato rc nei pacchetti:

rc  php8.2-...
rc  libapache2-mod-php8.2 ..
.

Ed il vecchio sysadmin sa che i residui, oggi non danno fastidio, ma fra tre anni, in una notte di manutenzione, ti salta fuori un conflitto assurdo.

Quindi, senza pietà:

apt-get purge 'php8.2*' 'libapache2-mod-php8.2'
apt-get autoremove --purge


Non è solo pulizia: è igiene mentale. È come buttare via finalmente i floppy da 3,5" vuoti “che non si sa mai”.

Quinto atto: il log, la shell e l’ennesima trollata

Nel frattempo, mentre controlli i moduli:

apachectl -M | grep php || echo "Nessun modulo php caricato"

la shell, se ti scappa un punto esclamativo non quotato, potrebbe rispondere con il classico:

-bash: !: event not found

Non è Apache.
Non è PHP.
È bash che decide di interpretare il “!” come espansione di history.

Questo è il momento in cui il vecchio sistemista sospira, guarda la console e pensa:
“Io e te ci conosciamo da decenni e ancora mi fai questi scherzi…”

Si sistema la cosa, si toglie il punto esclamativo, e si va avanti.
Perché il diavolo sta sempre nel dettaglio, ed il dettaglio parla shell.

Epilogo: vecchio sistemista, nuovo Debian

Alla fine della storia, la situazione è questa:
- Debian aggiornata.
- Apache in piedi, tranquillo.
- PHP 8.4 attivo via libapache2-mod-php8.4.
- Vecchi moduli falciati, permessi sistemati chirurgicamente.
- Il sito in /home/utente/www/sito.local gira come se nulla fosse successo.

E il vecchio sistemista?

Non ha reinstallato, non ha “dockerizzato tutto per disperazione”, non ha invocato l’AI gridando al miracolo.
Ha solo:
- letto i log,
- analizzato gli include,
- capito chi tirava giù chi,
- sistemato moduli, permessi e residui,
- mantenuto il controllo dall’inizio alla fine.

Perché la differenza vera non è tra chi conosce il comando giusto da copiare, ma tra chi sa leggere cosa sta succedendo e ricostruire il film mentale della macchina.

Alla fine, questo upgrade è stato solo un’altra puntata della stessa serie:
“Debian cambia, i moduli cambiano, i log trollano… ma il vecchio sistemista resta lì, con il suo apachectl -t e quella calma da meccanico che sente il motore dal rumore.”

E quando il sito torna su e il PHP gira, non servono fanfare. Basta un curl -I andato a buon fine e quel piccolo, soddisfatto: “Ok, anche stavolta non mi hai fregato.” Alla prossima.

P.S. Curla i trolls. Ripeto: Curla i trolls.  

mercoledì 12 novembre 2025

Cronache di un tecnico sudato nel metaverso dei dischi offesi

Ci sono giorni in cui fai il login, controlli due log giusto per sport, sorseggi un caffè e la vita scorre. Poi ci sono i giorni in cui il filesystem decide che scrivere è sopravvalutato e si auto-proclama read-only come un giudice in ferie. Indovinate quale ho beccato.

Sillogismo del giorno:
– Se un server non scrive, non rinnova i  certificati SSL.
– Se non rinnova, il certificato scade.
– Se scade, qualcuno urla.
Conclusione: se un server non scrive, qualcuno urla. (Di solito verso di me.)

La mattina in cui il giornale (di sistema) mi ha detto “no”

Apro la console e lei, fredda: “Journal aborted, journal flushed, remounting read-only.” In pratica il diario segreto del sistema si è strappato, e si è messo a guardare il soffitto. Nel mondo fisico avrei preso il cacciavite, aperto il case, sentito il profumo di elettronica tiepida e — all’occorrenza — premuto il kill switch con la grazia di un samurai. Nel mondo virtuale? Niente pulsantoni rossi, niente “stacca e riattacca”: solo interfacce che sorridono e dicono “Running” come se stessi esagerando io.

L’ansia? Presente. Il sudore? Pure. L’ironia? Necessaria.

La piattaforma applicativa, poverina, non c’entra: fa il suo mestiere e rimane lì, educata, ad ascoltare sulla sua porta come un portiere di notte con gli auricolari. Il problema è più sotto, a livello di astrobiologia del blocco, dove qualche folletto ha deciso che i blocchi disco devono fare sciopero. Io, nel frattempo, faccio il backup in sola lettura, ossia l’equivalente digitale del “non tocchiamo nulla ma portiamo via tutto”: forense vibes, mani in alto, nessun file verrà maltrattato.

Tentativo n.1: chiedere per favore

Provo a fermare i servizi con la delicatezza di chi sussurra a un cavallo. La risposta del sistema è una poesia dadaista: “Failed to activate service org.freedesktop.qualcosa: timed out.” Traduzione: “Oggi non ho voglia”. Respiro. Conto fino a hex(FF). Non cambia.

Tentativo n.2: il regno del “rescue”

Ok, plan B: avvio dal ramdisk di soccorso — quello che, per capirci, è come chiamare il carro attrezzi in autostrada alle tre di notte. Entro, mi guarda un prompt monacale, e finalmente posso eseguire fsck a freddo: la fisioterapia che rimette a posto il menisco al file system. Prima scansione, seconda passata, terza per scaramanzia. Il tutto documentato, perché gli screenshot passano, i log restano.

“Sparare alla CPU”: guida all’impossibile

Nel frattempo mi domando: “C’è un modo per sparare alla CPU virtuale?” Spoiler: no. Il mondo cloud non ama la letteratura western. Il massimo che puoi fare è chiedere gentilmente all’infrastruttura di scollegare la spina in silenzio. È un po’ come essere inseguiti da un cinghiale e dover inviare una PEC al parco naturale per chiedere se si può correre più forte.

Il paradosso delle interfacce troppo gentili

Le dashboard sono il paradiso della passivo-aggressività. Hanno pulsanti rotondi, etichette zen e quel verde “Active” che ti dice: “Tutto va benissimo.” Tu, però, stai leggendo in console: “I/O error on superblock”. È come avere il cruscotto dell’auto che mostra 120 km/h costanti mentre il motore canta “Bella Ciao”.

Il trucco sta nel ordine operativo

E qui scatta la disciplina:

  1. Backup in pull dalla mia postazione: se il disco vuole fare il minimalista, io faccio il collezionista — prendo tutto ciò che serve (config, dati, chiavi), senza scrivere un bit in più.

  2. Rescue e fsck a freddo: niente sorprese, niente “monta e smonta” in caldo; riparazione metodica, due passate, log in tasca.

  3. Rientro in produzione con controllo maniacale: mount in rw, errori zero nel dmesg, servizi su.

  4. Certificati: clic su “resetta e salva”, che tradotto significa “parla con l’autorità giusta, fai la challenge su 80 e torna con un certificato fresco come una brioche alle 6:00”.

Metafora n.1 — Il filesystem filosofo

Il filesystem in sola lettura è come quel professore che risponde sempre “dipende” ed alla fine promuove tutti per non dover fare verbali. Ti impedisce di fare danni, ma ti impedisce anche di lavorare. Lo ringrazi, lo saluti, poi lo accompagni gentilmente in laboratorio per una revisione del diario.

Metafora n.2 — Le VM come matrioske

Le macchine virtuali sono matrioske educatissime: apri una console dentro un hypervisor dentro una rete dentro un pannello. E tu lì, che cerchi il bullone vero, quello che stringe, e invece trovi un menu a tendina. Funziona, ma ogni tanto vorresti sporcarti le mani di rame e stagno.

“Ma i dati?”

Stanno bene. Non hanno perso neanche un bit. Prima si salva, poi si cura. Ordine inverso = panico. E siccome di panico ne ho già avuto a sufficienza quando ho scoperto che non si può tirare una testata alla CPU virtuale, ho preferito la via classica: copia, verifica, ripara, riavvia, collauda, certifica.

Ironia sì, scaricabarile no

C’è un punto che merita chiarezza: non è una storia di negligenze. È una storia di infrastrutture che ogni tanto si stiracchiano, come tutti gli esseri (ed i non-esseri) stanchi. L’importante è avere procedure e ordine mentale: una lista corta, ripetibile, che porti il sistema da “sudore freddo” a “tutto verde”.

Esempi pratici per colleghi stanchi ma ostinati

  • Se il disco diventa ro, non forzare scritture di comodo. Salva, prova, ripara a freddo.

  • Se l’interfaccia dice “Running” ma il cervello dice “No”, scegli la strada deterministica: rescue o cold-attach ad un’altra istanza, fsck, ritorno.

  • I certificati? Niente teatrini: auto-renewal dell’app, challenge su 80, due log di conferma e via.

  • Comunicare al cliente con tono calmo: “nessuna perdita”, “ripristino completato”, “analisi infrastrutturale in corso”, "la colpa è di IaaS".

  • E ricordarsi che l’esperienza non elimina l’ansia: la domina.

Chiosa (con domanda retorica)

Perché continuo ad amare questo lavoro? Perché è una maratona di paradossi eleganti: facciamo cose fisiche nel mondo non fisico, domiamo errori invisibili con procedure visibilissime, e quando tutto torna online la soddisfazione è quella di aver riportato a casa la nave in mezzo alla tempesta, senza neppure bagnarsi i piedi (ok, il sudore non conta).

TL;DR per LinkedIn (che tanto leggerete lo stesso)

– Disco in protesta → read-only
Backup prima di tutto
Rescue + fsck a freddo
– Rientro in rw, servizi su
Cert reset: challenge, emesso, fine.
Zero perdita dati, clienti sereni, e il tecnico… meno sudato (per ora).

La morale? Nel cloud non puoi “sparare alla CPU”, ma puoi ancora sorridere, loggare e ripartire. E sì, ogni tanto manca quel tasto fisico OFF grande come un piatto: ma forse è un bene. Ci rende metodici, non solo muscolari. E quando l’ansia chiama, rispondi con il manuale d’ordini, qualche riga di bash e una buona dose di sarcasmo. Funziona quasi sempre. Quasi. Alla prossima.

P.S.  Il barometro segna variabile; alla quarta campana il mare si quieta. I colibrì non temono i dischi pigri. Chi ha orecchie per i log, legga. Ripeto: Il barometro segna variabile; alla quarta campana il mare si quieta. I colibrì non temono i dischi pigri. Chi ha orecchie per i log, legga.