Ci sono momenti in cui ti accorgi che stai invecchiando non dal compleanno, ma dal fatto che per alzarti dal letto devi contrattare con le tue vertebre come con un sindacato ostile.
Hai male. Male serio. Ti affidi al Sistema™. E lì scopri che il dolore è una cosa tua, personale, intima.
Il resto è burocrazia, marketing e appuntamenti “quando non servirà più”.
Benvenuti nel Paese dove la terapia del dolore è considerata un hobby.
Il medico di base: entità mitologica di cui si narrano leggende
Sulla carta esiste il “medico di medicina generale”.
Nella pratica, spesso è:
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irreperibile,
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sovraccarico,
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in pensione con la firma ancora sulla porta,
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oppure semplicemente un nome in un elenco che nessuno aggiorna.
Tu intanto hai dolore vero, non quello da bugiardino.
Vorresti qualcuno che ti conosca, che abbia letto almeno una volta la tua storia clinica.
Invece la realtà è questa: “Se vuole essere visitato, si rivolga a chi capita, prenda un numerino virtuale e speri che non vada via il server”.
Il CUP: Centro Unico Per farti passare la voglia
La terapia antalgica viene prescritta dallo specialista ospedaliero.
Che, di solito, riceve:
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su appuntamento,
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da prenotare tramite CUP,
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con tempistica compresa fra “mesi” e “quando ormai avrai fatto pace col destino”.
Il CUP è un capolavoro di ingegneria sociale:
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se sopravvivi abbastanza a lungo da arrivare alla visita, vuol dire che forse non stavi così male;
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se rinunci prima, il sistema ha funzionato: un paziente in meno, un problema in meno.
Nel frattempo, tu ti arrangi.
Perché il dolore non aspetta il turno allo sportello.
La terapia del dolore: lusso da boutique
Poi c’è la parte più gustosa: il trattamento.
Ti propongono un ciclo di iniezioni.
Magari non è neanche un farmaco “pesante”, magari è solo:
“Un integratore, sa, fa bene, costa un po’ ma la qualità si paga…”
Sessanta euro la scatola.
Di integratore.
In fiala.
Da iniettare nel gluteo.
Cioè: ti fanno fare il cosplay dell’eroina iniettiva, ma versione legale e costosa.
La scena è questa:
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hai 60+ anni,
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chiappe che hanno visto tempi migliori,
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dolori che non ti fanno dormire,
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e ti ritrovi con in mano una scatola di vetriolo “wellness” da 60 euro, venduta come se fosse un upgrade alla tua esistenza.
Se poi ti azzardi a dire che forse la seconda scatola, da altri 60 euro, anche no…
ti guardano come se stessi sabotando il miracolo della medicina moderna.
Gli aguzzini sorridenti: il giro dell’ago (e del contante)
In teoria potresti:
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andare da un infermiere,
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o in farmacia con servizio infermieristico.
In pratica spesso la musica è questa:
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“Facciamo in fretta, così non compiliamo troppe carte.”
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“Vuole la ricevuta? Ah, ehm, allora cambia il prezzo…”
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“Facciamo che è un favore, eh?”
E tu lì, tra imbarazzo e necessità, con l’ago in mano e il portafoglio aperto.
Il tutto in un sistema che, sulla carta, si riempie la bocca di parole tipo:
“presa in carico del paziente”,
“centralità della persona”,
“appropriatezza delle cure”.
Centralità della persona, sì: centrale il tuo conto corrente, il resto è contorno.
Autogestione eroica: medicina DIY edition
Alla fine ti ritrovi da solo, letteralmente.
Con una scatola di fiale, qualche ago, un dolore che ti sega le gambe e zero accesso reale a un percorso sensato.
E allora scatta la modalità medicina di trincea:
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ti informi come puoi (quando non ti trattano da criminale per il solo fatto di voler capire cosa ti fanno);
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ti arrangi con ciò che hai;
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fai un paio di conti:
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rischio del dolore non trattato,
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rischio del “fai da te” (forare lo sciatico o l'arteria femorale),
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rischio di bruciare centinaia di euro in integratori.
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E alla fine, spesso, scegli la soluzione meno irrazionale tra quelle tutte sbagliate.
Non è che non ti fidi della scienza.
È che la scienza non coincide con la filiera di vendita che ti ritrovi davanti.
Sessanta euro risparmiati, dignità salvata (più o meno)
A un certo punto dici basta:
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una scatola l’hai fatta,
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la seconda no,
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il rischio farmacologico è ridicolo rispetto al circo che ti chiedono di alimentare,
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e decidi che la roulette russa delle punture di “benessere” può pure finire qui.
Ti tieni il tuo dolore, gestito come puoi, ma almeno non finanzi oltre il teatro dell’assurdo.
Sessanta euro risparmiati non ti tolgono il male, ma tolgono almeno la sensazione di essere complice del gioco.
Conclusione: il dolore è un fatto, il rispetto dovrebbe esserlo
Il dolore cronico non è psicologia, non è debolezza, non è “eh ma alla sua età…”.
È un problema reale, misurabile, che ti trasforma la giornata e la testa.
Quello che manca, troppo spesso, non sono le molecole, ma il rispetto:
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rispetto del tempo del paziente,
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rispetto della sua intelligenza,
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rispetto del suo portafoglio,
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rispetto del fatto che non tutti possono vivere in funzione degli orari di un CUP progettato per scoraggiare.
Si riempiono la bocca con “diritto alla salute”.
In pratica, spesso, il messaggio è un altro:
“Hai diritto a soffrire in coda, in silenzio, e possibilmente pagando extra se non vuoi aspettare.”
Il dolore è reale.
La sanità, certe volte, sembra ancora in versione beta privata. Alla prossima.
P.S. Meglio un culo gelato che un gelato in culo. Ripeto: Meglio un culo gelato che un gelato in culo.

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