domenica 30 novembre 2025

Il CRM per il Trevisàn che ha la rete messa insieme con gli elastici



C’è una specie antropologica tutta trevigiana che può essere descritta così: nasce già col cronometro in mano, parla al doppio della velocità del resto della regione, e considera la tecnologia un fastidio da risolvere con la filosofia del “meti xò el cavo che dopo sistemo tuto mì”.

È l’imprenditore della Marca versione hardcore. Quello che ha la sede aziendale in un capannone che sembra uscito da un servizio di “Linea Verde”, ma una rete informatica progettata dall'Ing. Bonobo Imbriàgo.

Ed eccolo qui, il nostro eroe, che entra in studio con lo stesso atteggiamento con cui uno entrerebbe dal parrucchiere dopo essersi tagliato i capelli da solo col decespugliatore.

La frase di apertura è un classico: «Mì gò deciso: vòjo el CRM. Quèo che integra tuto: mail, telefoni, clienti, fornidòri, la contabilità… Tuto! Che no xè pì drìo funsionàr gnènte!»

Già qui sento il fegato che smotta. Perché lo dice come se stesse ordinando un panino al radicchio: uno crede che sia semplice, poi ti ritrovi a spiegargli che serve anche il pane.

«Benissimo,» gli rispondo. «Mi fa vedere com’è strutturata la rete?»
E lui, orgoglioso come un pavone ubriaco in gita a Venèssia, apre lo schema: un router del 2006, due switch cinesi marca “SuperTiger”, quattro powerline piazzate a caso, ed un server che gira su Windows 7 “parché funsiòna ancora ben, eh”.

Sembra un Frankenstein fatto da un bambino di tre anni dopo una brutta notte di febbre.

Poi arriva la parte migliore: «Ma no stàr a tocàr massa, eh. No vojo disfàr tuto, basta che el CRM se integra. Cossa ghe vol?»

Cossa ghe vol?
Come integrare un impianto domotico in una casa dove i fili della corrente sono tenuti insieme da scotch da pacchi e bestemmie in dialetto veneto.  Come trapiantare un cuore nuovo in un corpo che fuma 60 sigarette al giorno e beve grappa come fosse acqua santa.

E perché vuole il CRM?
Per “essere moderni”.
Che poi significa poter dire ai soci:«Avón anca el CRM, sì! Semo avanti!»
E magari usarlo due giorni, poi dimenticare la password e telefonare urlando: «Funsiona mìa! Candelporco! Sistema tì!»

La verità, che il Trevisàn non vuole mai sentire, è questa: un CRM in una rete marcia è come montare i freni a disco su una carriola di lamiera: la carriola resta carriola, non diventa una Tesla.

Il CRM è potente, ma non è una protesi per sistemi informatici in fin di vita.
E soprattutto non è un giocattolo da mettere sù, per vanità imprenditoriale.

Perché un CRM serio funziona solo se:

– la rete non è un cimitero di speranze,
– i dispositivi non sono riciclati da un museo di archeologia digitale,
– gli utenti non trattano la password come un optional estetico,
– e soprattutto
se il titolare capisce che il tecnico non è un garzone da comandare, ma un professionista da ascoltare.

Il Trevisàn, però, preferisce sempre l’approccio spirituale: «Dìme ti come far. Ma dopo fasso come digo mi.»

E lì, in quel momento, scatta l’illuminazione: non è un cliente, è un test di sopravvivenza. Una prova iniziatica dei cavalieri Jedi, ma al contrario.

Il CRM glielo farebbe anche volentieri, eh. Ma prima dovrebbe fargli la rete nuova, il backup, la posta, la sicurezza, la formazione, la cultura digitale… insomma, un miracolo alla Lourdes dell’informatica.

Ed io miracoli non ne faccio. Preferisco lavorare con aziende che vogliono crescere, non con aziende che vogliono un CRM per fare colpo in osteria. Alla prossima.

P.S. il capo è pelato. Ripeto: il capo è pelato. 

giovedì 27 novembre 2025

Bèpi Sugamàn e l’Inteigensa Artificiàe

 


In questi anni ho conosciuto un nuovo animale mitologico del panorama imprenditoriale italiano: il Bèpi Sugamàn Digitale. È una creatura affascinante, un misto tra spaccone di periferia e guru dell’innovazione immaginaria. Si avvicina a te — consulente, tecnico, professionista — con l’aria di chi sta per rivelarti il segreto dell’universo, poi apre bocca e parte la fiera del nonsense.

L’esordio è sempre questo: “Mi serve l’inteigènsa artifiçiàe. La ghe vol. Oh, la xè el futuro.” In quel momento capisci che non c’è speranza. Hai davanti uno che non distingue un file PDF da una grattugia, ma vuole l’AI “perché lo dice Internet” (o suo cugino ragioniere).

Come riconoscere un Bèpi Sugamàn digitale

Facile. Ha una serie di caratteristiche inconfondibili:

  • Dice “voglio l’AI” con lo stesso tono con cui ordinerebbe una pizza capricciosa.
  • Usa WhatsApp per tutto, anche per mandarti file che sarebbe illegale far vedere persino al parroco.
  • Ha un gestionale scritto nel 1998 da suo cognato e pretende che “si colleghi all’AI”.
  • Ha paura del cloud ma manda contratti via screenshot.
  • Paga sempre in ritardo, ma “spende volentieri se il lavoro è fatto bene”, cioè mai.
  • Vuole decidere le strategie tecniche perché “lui è il titolare”.

E soprattutto, la sua frase preferita:

“Mi so cossa serve. Te basta che me fassi el programìn.”

Il programìn. Oggetto leggendario, tipo il Sacro Graal. Non si sa cosa sia, non si sa cosa faccia, ma lui è certo che esiste.

Perché NON lavoro con questa gente

Io non faccio miracoli. Non faccio magia nera. Non sono un domatore di incompetenze.

Io progetto, analizzo, pianifico, integro. E quando serve, dico dei “no” lunghi come la tangenziale di Mestre.

Perché il bèpi sugamàn:

  • non ascolta;
  • non capisce;
  • ma soprattutto non vuole capire.

Lui vuole l’AI come status symbol: per sentirsi moderno, per far colpo sulla moglie, per poter dire al bar “go messo l' inteigensa artifiiciae nel capanòn”.

A questi soggetti ricordo sempre un dettaglio importante: l’intelligenza artificiale non compensa la stupidità naturale.

Sillogismo

Premessa 1: Se non ascolti il tecnico, fai danni.
Premessa 2: Il bèpi non ascolta.
Conclusione: Il bèpi è un progetto di bonifica, non di consulenza.

Il cliente ideale (per me)

Io lavoro con persone che hanno tre qualità:

  • umiltà professionale;
  • fiducia nell’esperto che pagano;
  • capacità di non dire stupidaggini mentre io progetto.

Perché se vieni da me a dirmi cosa devo fare, come devo farlo e quanto ci devo mettere, un dubbio mi viene: se sei così bravo, perché non te lo fai da solo?

Io non sono un muratore digitale, non vengo a tirarti su i muretti delle tue idee sbagliate. Io progetto case, non rattoppo pollai.

La parabola del SUV e del trattore

Il bèpi vuole l’AI come chi compra un SUV da 200.000 euro per fare due rotonde. Poi però si infila in una stradina di campagna, si impantana e dice che è colpa della macchina.

La verità è semplice: se non sai guidare un trattore, non puoi pretendere di pilotare un jet.

Ma prova a spiegarglielo: ti risponde che “lui ha esperienza”. Certo: esperienza nel complicarsi la vita.

Conclusione: il test del fegato

Se dopo aver letto questo articolo ti sei divertito, probabilmente sei un tecnico, o un imprenditore intelligente. Se ti sei irritato, rivediamo insieme il sillogismo: forse fai parte del problema, non della soluzione.

Io lavoro con chi vuole crescere, non con chi vuole comandare senza capire. Se cerchi un consulente che ti dica sempre sì, non sono io. Se cerchi uno che ti dica la verità, anche quando fa male, allora sì: parliamone.

Meglio pochi clienti, ma intelligenti. L’intelligenza artificiale è potente, ma quella naturale — quando c’è — vale molto di più. 

P.S. latte uova e farina sbattute assieme non fanno una torta. Ripeto:  latte uova e farina sbattute assieme non fanno una torta.

giovedì 20 novembre 2025

Il dolore è reale, la sanità un po’ meno

 


Ci sono momenti in cui ti accorgi che stai invecchiando non dal compleanno, ma dal fatto che per alzarti dal letto devi contrattare con le tue vertebre come con un sindacato ostile.

Hai male. Male serio. Ti affidi al Sistema™. E lì scopri che il dolore è una cosa tua, personale, intima.
Il resto è burocrazia, marketing e appuntamenti “quando non servirà più”.

Benvenuti nel Paese dove la terapia del dolore è considerata un hobby.


Il medico di base: entità mitologica di cui si narrano leggende

Sulla carta esiste il “medico di medicina generale”.
Nella pratica, spesso è:

  • irreperibile,

  • sovraccarico,

  • in pensione con la firma ancora sulla porta,

  • oppure semplicemente un nome in un elenco che nessuno aggiorna.

Tu intanto hai dolore vero, non quello da bugiardino.

Vorresti qualcuno che ti conosca, che abbia letto almeno una volta la tua storia clinica.
Invece la realtà è questa: “Se vuole essere visitato, si rivolga a chi capita, prenda un numerino virtuale e speri che non vada via il server”.


Il CUP: Centro Unico Per farti passare la voglia

La terapia antalgica viene prescritta dallo specialista ospedaliero.
Che, di solito, riceve:

  • su appuntamento,

  • da prenotare tramite CUP,

  • con tempistica compresa fra “mesi” e “quando ormai avrai fatto pace col destino”.

Il CUP è un capolavoro di ingegneria sociale:

  • se sopravvivi abbastanza a lungo da arrivare alla visita, vuol dire che forse non stavi così male;

  • se rinunci prima, il sistema ha funzionato: un paziente in meno, un problema in meno.

Nel frattempo, tu ti arrangi.
Perché il dolore non aspetta il turno allo sportello.


La terapia del dolore: lusso da boutique

Poi c’è la parte più gustosa: il trattamento.

Ti propongono un ciclo di iniezioni.
Magari non è neanche un farmaco “pesante”, magari è solo:

“Un integratore, sa, fa bene, costa un po’ ma la qualità si paga…”

Sessanta euro la scatola.
Di integratore.
In fiala.
Da iniettare nel gluteo.

Cioè: ti fanno fare il cosplay dell’eroina iniettiva, ma versione legale e costosa.

La scena è questa:

  • hai 60+ anni,

  • chiappe che hanno visto tempi migliori,

  • dolori che non ti fanno dormire,

  • e ti ritrovi con in mano una scatola di vetriolo “wellness” da 60 euro, venduta come se fosse un upgrade alla tua esistenza.

Se poi ti azzardi a dire che forse la seconda scatola, da altri 60 euro, anche no…
ti guardano come se stessi sabotando il miracolo della medicina moderna.


Gli aguzzini sorridenti: il giro dell’ago (e del contante)

In teoria potresti:

  • andare da un infermiere,

  • o in farmacia con servizio infermieristico.

In pratica spesso la musica è questa:

  • “Facciamo in fretta, così non compiliamo troppe carte.”

  • “Vuole la ricevuta? Ah, ehm, allora cambia il prezzo…”

  • “Facciamo che è un favore, eh?”

E tu lì, tra imbarazzo e necessità, con l’ago in mano e il portafoglio aperto.
Il tutto in un sistema che, sulla carta, si riempie la bocca di parole tipo:

“presa in carico del paziente”,
“centralità della persona”,
“appropriatezza delle cure”.

Centralità della persona, sì: centrale il tuo conto corrente, il resto è contorno.


Autogestione eroica: medicina DIY edition

Alla fine ti ritrovi da solo, letteralmente.
Con una scatola di fiale, qualche ago, un dolore che ti sega le gambe e zero accesso reale a un percorso sensato.

E allora scatta la modalità medicina di trincea:

  • ti informi come puoi (quando non ti trattano da criminale per il solo fatto di voler capire cosa ti fanno);

  • ti arrangi con ciò che hai;

  • fai un paio di conti:

    • rischio del dolore non trattato,

    • rischio del “fai da te” (forare lo sciatico o l'arteria femorale),

    • rischio di bruciare centinaia di euro in integratori.

E alla fine, spesso, scegli la soluzione meno irrazionale tra quelle tutte sbagliate.

Non è che non ti fidi della scienza.
È che la scienza non coincide con la filiera di vendita che ti ritrovi davanti.


Sessanta euro risparmiati, dignità salvata (più o meno)

A un certo punto dici basta:

  • una scatola l’hai fatta,

  • la seconda no,

  • il rischio farmacologico è ridicolo rispetto al circo che ti chiedono di alimentare,

  • e decidi che la roulette russa delle punture di “benessere” può pure finire qui.

Ti tieni il tuo dolore, gestito come puoi, ma almeno non finanzi oltre il teatro dell’assurdo.

Sessanta euro risparmiati non ti tolgono il male, ma tolgono almeno la sensazione di essere complice del gioco.


Conclusione: il dolore è un fatto, il rispetto dovrebbe esserlo

Il dolore cronico non è psicologia, non è debolezza, non è “eh ma alla sua età…”.
È un problema reale, misurabile, che ti trasforma la giornata e la testa.

Quello che manca, troppo spesso, non sono le molecole, ma il rispetto:

  • rispetto del tempo del paziente,

  • rispetto della sua intelligenza,

  • rispetto del suo portafoglio,

  • rispetto del fatto che non tutti possono vivere in funzione degli orari di un CUP progettato per scoraggiare.

Si riempiono la bocca con “diritto alla salute”.
In pratica, spesso, il messaggio è un altro:

“Hai diritto a soffrire in coda, in silenzio, e possibilmente pagando extra se non vuoi aspettare.”

Il dolore è reale.
La sanità, certe volte, sembra ancora in versione beta privata. Alla prossima.

P.S.  Meglio un culo gelato che un gelato in culo. Ripeto:  Meglio un culo gelato che un gelato in culo.

giovedì 13 novembre 2025

Quando Debian cresce ed Apache fa i capricci

Cronache di un vecchio sistemista che non si fa fregare da PHP. 


 

C’è un momento, nella vita di ogni vecchio sistemista, in cui senti quella vocina interiore che sussurra: «È uscito Debian nuovo… che fai, aggiorni?»

E tu, invece di ascoltare l’istinto di sopravvivenza, aggiorni.

Finché, ovviamente, non arriva lui:
apache2.service: FAILED
e il tuo server di fiducia ti guarda in silenzio come un gatto offeso.

Primo atto: Apache muore, ma con stile

Scenario: server Debian 13 nuovo di zecca dopo upgrade. Apache non parte, journalctl ti spara in faccia qualcosa del tipo:

Syntax error su una riga di apache2.conf, e poi:

Syntax error on line 3 of /etc/apache2/mods-enabled/php8.2.load:
Cannot load /usr/lib/apache2/modules/libphp8.2.so into server: ...


Traduzione per umani:
- Apache di suo è tranquillo.
- È PHP 8.2 che è rimasto appeso come un ex che non capisce di essere stato lasciato.
- Il file libphp8.2.so non c’è più, ma la configurazione prova ancora a caricarlo.

Apache, giustamente, si rifiuta di partire con mezzo arto fantasma attaccato.

Il sistemista giovane a questo punto formatta il server o dà la colpa a systemd.
Il sistemista navigato invece fa una cosa molto blasfema ma efficace:

apachectl -t

legge l’errore con calma, individua il colpevole (php8.2.load) e lo spegne:

a2dismod php8.2
apachectl -t
systemctl restart apache2


E Apache torna a respirare. Senza PHP, ma respira.

Come quando riaccendi un vecchio server rimuovendo a mano la scheda SCSI di cui nessuno si ricordava.

Secondo atto: il 403 che ti guarda giudicante

Risolto il crash, arriva il passivo-aggressivo di Apache:

403 Forbidden – You don’t have permission to access this resource.

E tu pensi: «Ma se ha SEMPRE funzionato, perché ora no?»

Classico mantra del sysadmin: “ma non ho toccato niente” (tranne un major upgrade, tre moduli e mezza distro nuova, dettagli).

Qui entra in gioco il lato artigiano di bottega del sistemista.

- DocumentRoot del sito di test, per esempio: /home/utente/www/sito.local
- In apache2.conf c’è un blocco tipo:

<Directory /home/utente/www/>
    Options Indexes FollowSymLinks
    AllowOverride None
    Require all granted
</Directory>

Sulla carta è tutto giusto. Nella pratica, Apache gira come utente www-data e, se la home è un bunker tipo:

drwx------  /home/utente

allora www-data non entra. Non per cattiveria: manca la “x” sul percorso, e senza execute sulle directory, nel mondo Unix non passi.

Quindi, con mano ferma (non in modalità “chmod 777 a pioggia”, quello è peccato mortale) si fa:

chmod 711 /home/utente
chmod 755 /home/utente/www
chmod 755 /home/utente/www/sito.local


- 711 sulla home: nessuno vede i file, ma Apache può attraversare la directory.
- 755 sul webroot: la vecchia scuola, onesta e prevedibile.

Risultato: il 403 sparisce.
Il sistemista sorride.
Per 5 secondi.

Terzo atto: il PHP che invece di girare… si scarica

Appena pensi “ok, è fatta”, apri il sito e il browser ti chiede candidamente:

“Vuoi aprire o salvare un file di tipo application/x-httpd-php?”

Ed è lì che un brivido ti scende lungo la schiena. Quando il browser ti propone di scaricare un file .php, vuol dire una cosa semplice:

“Il server non lo sta più eseguendo. Te lo sta dando paro paro.”

Apache è vivo, ma nessun modulo PHP è attivo. È come avere il forno acceso senza la resistenza: luce c’è, calore zero.

Un occhio a mods-available e mods-enabled:

ls /etc/apache2/mods-available/php*
# php8.2.conf, php8.2.load, php8.4.conf, php8.4.load (per esempio)

ls /etc/apache2/mods-enabled/php*
# (vuoto)

La nuova Debian, nel frattempo, ha fatto il salto generazionale:
- sul sistema c’è libapache2-mod-php8.4,
- il PHP CLI è 8.4,
- ma Apache… non lo sa ancora.

E qui entra in scena l’esperienza.

Il pivello scriverebbe:

a2enmod php

e si offenderebbe per l’errore:
ERROR: Module php does not exist!

Il sistemista navigato guarda i nomi dei file e dice: “Ok, tu vuoi il nome esatto del modulo, non le astrazioni filosofiche.”

Quindi:

a2enmod php8.4
apachectl -t
systemctl restart apache2


E, come un vecchio televisore a valvole preso a schiaffi sul lato giusto, PHP riprende a funzionare.

Quarto atto: archeologia digitale, ovvero “purga gli ex”

A questo punto PHP 8.4 gira, Apache è felice, il sito risponde. Nel sistema però sono rimasti i fossili di PHP 8.2 in stato rc nei pacchetti:

rc  php8.2-...
rc  libapache2-mod-php8.2 ..
.

Ed il vecchio sysadmin sa che i residui, oggi non danno fastidio, ma fra tre anni, in una notte di manutenzione, ti salta fuori un conflitto assurdo.

Quindi, senza pietà:

apt-get purge 'php8.2*' 'libapache2-mod-php8.2'
apt-get autoremove --purge


Non è solo pulizia: è igiene mentale. È come buttare via finalmente i floppy da 3,5" vuoti “che non si sa mai”.

Quinto atto: il log, la shell e l’ennesima trollata

Nel frattempo, mentre controlli i moduli:

apachectl -M | grep php || echo "Nessun modulo php caricato"

la shell, se ti scappa un punto esclamativo non quotato, potrebbe rispondere con il classico:

-bash: !: event not found

Non è Apache.
Non è PHP.
È bash che decide di interpretare il “!” come espansione di history.

Questo è il momento in cui il vecchio sistemista sospira, guarda la console e pensa:
“Io e te ci conosciamo da decenni e ancora mi fai questi scherzi…”

Si sistema la cosa, si toglie il punto esclamativo, e si va avanti.
Perché il diavolo sta sempre nel dettaglio, ed il dettaglio parla shell.

Epilogo: vecchio sistemista, nuovo Debian

Alla fine della storia, la situazione è questa:
- Debian aggiornata.
- Apache in piedi, tranquillo.
- PHP 8.4 attivo via libapache2-mod-php8.4.
- Vecchi moduli falciati, permessi sistemati chirurgicamente.
- Il sito in /home/utente/www/sito.local gira come se nulla fosse successo.

E il vecchio sistemista?

Non ha reinstallato, non ha “dockerizzato tutto per disperazione”, non ha invocato l’AI gridando al miracolo.
Ha solo:
- letto i log,
- analizzato gli include,
- capito chi tirava giù chi,
- sistemato moduli, permessi e residui,
- mantenuto il controllo dall’inizio alla fine.

Perché la differenza vera non è tra chi conosce il comando giusto da copiare, ma tra chi sa leggere cosa sta succedendo e ricostruire il film mentale della macchina.

Alla fine, questo upgrade è stato solo un’altra puntata della stessa serie:
“Debian cambia, i moduli cambiano, i log trollano… ma il vecchio sistemista resta lì, con il suo apachectl -t e quella calma da meccanico che sente il motore dal rumore.”

E quando il sito torna su e il PHP gira, non servono fanfare. Basta un curl -I andato a buon fine e quel piccolo, soddisfatto: “Ok, anche stavolta non mi hai fregato.” Alla prossima.

P.S. Curla i trolls. Ripeto: Curla i trolls.